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venerdì 3 Febbraio, 2023

Strage del Cermis, il giudice Ancona e la decisione di 25 anni fa: «Inevitabile trasferire la competenza negli USA. Ma i piloti hanno pagato»

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Il magistrato, ora in pensione, era il giudice dell'udienza preliminare per la tragedia che causò la morte di 20 persone. Un quarto di secolo dopo difende le sue decisioni e fa un bilancio degli esiti giudiziari: «I trattati internazionali non sono fatti per scherzare»

È stato giudice istruttore dell’inchiesta sulla tragedia di Stava e il giudice dell’udienza preliminare che ha dichiarato la carenza di giurisdizione dell’Italia per la strage del Cermis del 3 febbraio di 25 anni fa. Un quarto di secolo dopo Carlo Ancona è in pensione, ormai da quattro anni, e spiega come si arrivò alla decisione di dichiarare la competenza della corte militare americana a giudicare su Richard Ashby e Joseph Schweitzer, rispettivamente il pilota e il navigatore del Prowler che tranciò il cavo della funivia del Cermis mentre passava a volo radente sotto l’impianto facendo precipitare a terra la cabina della funivia e provocando 20 morti. Ashby e Schweitzer, piloti del corpo militare dei marines di stanza ad Aviano, vennero giudicati negli Stati Uniti e assolti dalle accuse di omicidio preterintenzionale, per il primo, e omicidio colposo, per il secondo. Schweitzer confessò, però, di aver distrutto il nastro di una videocamera che si trovava a bordo che avrebbe permesso di ricostruire l’incidente. Per questo entrambi gli ufficiali vennero riconosciuti colpevoli di ostruzione alla giustizia e congedati d’autorità dal corpo dei marines. La loro mancata condanna per la tragedia surriscaldò notevolmente i rapporti tra Italia e Stati Uniti che poi tornarono calmi solo quando gli Usa pagarono un consistente risarcimento danni e, su richiesta del governo D’Alema, fecero rientrare in Italia Silvia Baraldini che stava scontando una pena ultraventennale per conspiracy inflittale da un tribunale americano.
Dottor Ancona, ancora adesso si parla per il Cermis di giustizia negata, lei che ne pensa?
«Assolutamente no. I trattati internazionali non sono fatti per scherzare, ma vengono firmati per fare gli interessi dello Stato. Nel caso specifico il nostro interesse era quello della difesa del nostro territorio e per difendere il nostro territorio i soldati, compresi i piloti militari del Prowler, dovevano e devono tuttora addestrarsi duramente anche al volo radente a terra».
Ma all’epoca si parlò di una scommessa fatta tra di loro con in palio quattro birre.
«Qui da noi questo particolare non è mai emerso. Lo dissero dopo, una volta rientrati negli Stati Uniti».
Lei quando si occupò della vicenda?
«Io ho avuto tre ruoli diversi. Il primo durante le indagini preliminari quando ho dovuto giudicare sulla richiesta di incidente probatorio della Procura sui tracciati radar, il secondo quando ho dichiarato la carenza di giurisdizione in sede di udienza preliminare e l’ultimo quando ho presieduto la corte marziale americana per raccogliere le testimonianze italiane richieste per giudicare il pilota e il navigatore».
Come arrivò alla decisione dichiarare la carenza di giurisdizione italiana?
«C’era il precedente in cui la Cassazione aveva giudicato abnorme il provvedimento del giudice di Taranto che aveva giudicato l’attacco dei soldati francesi che avevano danneggiato una nave di Greenpeace. In seguito, c’è stata la pronuncia sul caso Lozano, il soldato americano che aveva ucciso a Baghdad Nicola Calipari subito dopo la liberazione di Giuliana Sgrena. In tutti questi casi la Cassazione ha sempre detto che c’era attività di guerra e quindi si rientrava nell’ambito dei trattati. Del resto l’Italia, anche prima del Cermis, si era sistematicamente spogliata di casi in cui erano coinvolti soldati americani, anche in processi per lesioni colpose sugli sci. Si trattava ovviamente di scelte politiche, dal momento che non si trattava di fatti gravi per i quali il risarcimento secondo i criteri Usa sarebbe stato molto superiore a quello ottenibile in Italia. In America, il risarcimento ha uno scopo punitivo e per questo è molto più alto rispetto al danno. Ed è quello che è accaduto nel caso del Cermis. L’importo dei risarcimenti sia per le famiglie delle vittime che per i danni alla funivia e all’immagine fu molto elevato».
Resta il fatto che il pilota e il navigatore non vennero ritenuti colpevoli dal punto di vista penale, neanche per il reato colposo.
«Dal punto di vista americano non erano colpevoli perché dovevano esercitarsi in condizioni di pericolo».
Ma le nostre norme prevedevano che l’aereo non potesse scendere sotto una certa quota e non potesse andare troppo veloce e neanche volare sotto una struttura civile come la funivia del Cermis.
«Sì ma questi erano limiti che valevano per i voli civili, mentre quello era un volo di addestramento alla guerra, quindi un volo di guerra a tutti gli effetti. Era un volo di addestramento militare registrato anche a priori come tale. La giurisprudenza italiana dice il contrario, ma quella americana no. E, vista la carenza della nostra giurisdizione, è stata applicata quella americana».
Ma così non c’è stata una cessione di sovranità agli Stati Uniti?
«A me risulta che anche i soldati italiani abbiano beneficiato di questo trattato in casi come questo. Penso al caso della Somalia. Noi aderendo a quel trattato internazionale abbiamo ceduto un pezzettino della nostra sovranità, ma in cambio di qualcosa di superiore come la sicurezza e la protezione internazionale. Tanto che ancora adesso ci sono basi in cui c’è una fortissima presenza di militari americani, come ad Aviano e a Vicenza. Tutto questo fa parte dell’alleanza atlantica. I giudici sono tenuti ad applicare la legge e in quel caso la legge era chiarissima. Era forse meno chiaro nel caso di Taranto, ma anche in quel caso la Cassazione dichiarò che l’Italia non poteva giudicare. Del resto non possiamo avere la pretesa di avere la botte piena e la moglie ubriaca. Se vogliamo avere un esercito pronto e addestrato dobbiamo anche permettere voli di addestramento. In quel caso stava casomai al comando militare italiano ad Aviano interdire certe zone ai voli di quel tipo, ma non venne fatto».
Le indagini come vennero svolte?
«La Procura fece una complessa indagine anche sulle cartografie e sui radar e chiese il rinvio a giudizio, ma, ripeto, la Cassazione era chiarissima e aveva già detto che sarebbe stato un provvedimento abnorme. Per questo motivo io respinsi la richiesta e la Procura neanche impugnò la decisione».
Poi, però, il caso tornò sulla sua scrivania.
«Gli americani, al contrario nostro, sono abituati a giudicare i loro militari anche quando manca la giurisdizione. Io sono stato presidente della corte marziale che doveva sentire i testimoni italiani. Loro poi ne sentirono un paio anche in America, durante il processo. Noi abbiamo lavorato per cinque giorni di seguito. Con me c’era un colonnello americano che disse di non aver mai lavorato tanto come in quei giorni».
Il processo americano come andò a finire?
«Ashby e Schweitzer vennero assolti dalle accuse di omicidio preterintenzionale e colposo, ma vennero espulsi dall’esercito per aver distrutto il video di quello che era accaduto in cabina di pilotaggio. Un fatto che da noi non sarebbe stato neanche reato, mentre da loro viene considerato un reato molto grave perché configura un inganno alla corte e quindi al popolo americano. Così i due piloti hanno dovuto scontare una pena che, se fossero stati giudicati qui da noi, non avrebbero mai ricevuto».
Ma così l’Italia non ha fatto la figura del paese suddito degli Usa?
«No, anzi. C’è stata anche l’intelligente operazione del governo dell’epoca che disse agli americani: noi rispettiamo i trattati, vi teniamo ancora ad Aviano, ma veniamoci incontro».
E così ci fu lo scambio con il rimpatrio di Silvia Baraldini che stava scontando 43 anni di carcere dal 1983 per cospirazione.
«Esattamente. Così si sono fatti consegnare la Baraldini che era in carcere da quindici anni per un reato che da noi non esiste. Il fatto è che da loro il diritto ha forti implicazioni religiose. Se dici il falso, le giurie non ti credono e ti condannano e non devono neanche motivare la condanna. Lo stesso se non riconosci i giudici come fece la Baraldini».
Qualcuno fa anche il parallelo con il caso di Chico Forti.
«Infatti. La giuria non gli credette perché aveva detto il falso una prima volta».