L'INTERVISTA

domenica 12 Febbraio, 2023

Reinhold Messner: «Sono sopravvissuto ai pericoli delle vette. Oggi? Si comprano»

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Il re degli Ottomila ripercorre la storia della sua vita. «Ho visitato i grandi deserti, il polo nord e il polo sud. Ho rispettato i popoli e le montagne. Ma l’alpinismo è cambiato»

Basta il nome, le presentazioni ormai sono superflue. Ma ripetere qualche numero rende l’idea. Nato a Bressanone nel 1944, negli anni Ottanta aveva già scalato tutte le più alte vette della terra, sempre in assetto leggero. Con più di cento spedizioni all’attivo e migliaia di ascensioni – affiancate ad altre imprese tra cui l’attraversata dell’Antartide, della Groenlandia e del deserto dei Gobi – Reinhold Messner rappresenta una vera propria leggenda dell’alpinismo che ha abbracciato, nel corso della sua vita, l’evoluzione di una delle più affascinanti attività sportive. Fondamentale inoltre il suo contributo alla narrazione e alla costruzione di una grande letteratura d’ambito mediante un’incessante attività divulgativa portata avanti con libri, film e oggi con un progetto museale composto da sei strutture in altrettante località del Sudtirolo e del Bellunese, «luoghi in cui incontrare la montagna, la gente di montagna e anche noi stessi».

Reinhold Messner, lei è stato il primo uomo ad aver conquistato tutti i quattordici Ottomila della terra. Cosa le rimane oggi di quelle imprese?

«Quello che più mi rimane è il fatto di aver potuto sfiorare la storia dell’alpinismo che è un’attività sportiva che possiede una letteratura, una narrativa e una filosofia importantissime, capaci di portare alla luce tante idee e la cultura del rapporto tra l’uomo e la montagna. Oggi mi concentro proprio su questo, e sono grato di aver potuto intraprendere già nel 1949 le prime salite come gli alpinisti del secolo precedente, mentre oggi invece è cambiato tantissimo: a un alpinista medio bastano i soldi per “comprarsi” una salita. A me interessa il rapporto tra la montagna grande, pericolosa e solitaria e l’essere umano che le si avvicina e tenta di sopravviverle».

Nei numerosi viaggi ha avuto la possibilità di incontrare numerosi popoli, culture e tradizioni. Questo ha dato un senso particolare alla sua vita?

«Ho fatto tanti viaggi di avvicinamento alla montagna con i suoi vari popoli e questo mi ha reso una persona rispettosa e studiosa nei loro confronti: mentre portavo avanti la mia attività mi sono avvicinato alle popolazioni locali e ho studiato tutte le montane sacre. Ho visitato i grandi deserti, il polo nord e il polo sud e poi ho deciso di dedicare un museo, nel castello di Brunico, a queste genti. L’obiettivo è narrare la cultura che la montagna ci “regala”, permettendoci di comprendere ciò che siamo in relazione al mondo».

Parliamo dell’evoluzione dell’alpinismo. Se in passato le spedizioni avevano un valore incentrato principalmente sulla scoperta e sulla ricerca dell’avventura, quale ritiene possa essere il loro futuro in un mondo in cui c’è sempre meno da scoprire?

«Ora ci troviamo di fronte a una situazione diversa, con il concetto di scoperta sempre al centro: non più quella scientifica o geografica, bensì quella delle nostre paure, delle nostre sensazioni più profonde, del fatto che in montagna la morte può essere sempre dietro l’angolo, con la conseguente comprensione dei nostri limiti in quanto esseri umani».

Le sue innovazioni nell’arrampicata libera e nell’alpinismo di alta quota hanno segnato un solco importante nella tradizione di questi ambiti, col senno di poi sente di aver fatto tutte le scelte giuste o c’è qualcosa che farebbe in modo diverso?

«È una domanda personale ma molto semplice: quello che è stato fatto è stato fatto e non ho la possibilità di tornare indietro, facendo ripartire la mia vita. Non esiste quindi giusto e sbagliato, bensì la consapevolezza che di fronte ad una partenza si è sempre sottoposti alla legge della natura che ho sempre rispettato, e rispetto, con il cuore».

La sua attività prosegue oggi in nuove declinazioni: libri, film, un progetto museale e una fondazione per le popolazioni montane. Da alpinista a imprenditore della cultura: qual è, a suo avviso, l’equilibrio ottimale nella fruizione di un patrimonio collettivo e nella sua tutela?

«È molto semplice: bisogna lasciare alla montagna la sua grandezza e la sua lentezza, in questo modo non la distruggeremo. Abbiamo portato funivie in alta quota e utilizziamo l’elicottero per il soccorso montano: una montagna così non è la montagna originale e le persone non riescono a comprendere realmente questo ambiente. Oggi conta solo la vetta, e non la via, e il turista vuole usare tutti gli aiuti a disposizione. L’equilibrio giusto sta nel lasciare la montagna com’è, accettando il fatto che andandoci si rischia la vita: questa è la mia filosofia fin da quando scrissi l’articolo “L’assassinio dell’impossibile”, che ha cambiato il modo di vedere l’alpinismo. Senza impossibile non si può capire veramente la natura e il problema riguarda anche le nuove generazioni che vivono prevalentemente in un mondo digitale: sarebbe opportuno, in età scolastica, far uscire i giovani per farli avvicinare al mondo naturale».

La fruizione della montagna è un aspetto molto discusso: quali sono per lei i pro e i contro di una sempre maggior frequentazione di questo ambiente, anche con eventi molto partecipati e rivolti ai non esperti?

«È difficile dirlo: ora sono molto comuni anche concerti in alta quota, anche se sono abbastanza scettico in merito: la musica della montagna è il silenzio, e molte persone non riescono a sopportarlo. Pensi che io ho capovolto la situazione organizzando degli eventi in cui un’orchestra sinfonica esegue la Sinfonia delle Alpi di Strauss e nei momenti di silenzio io racconto “live” le caratteristiche di questa composizione: si porta quindi la montagna in una sala dove la musica ha il diritto di esserci, mentre il contrario sarebbe sbagliato».

Un altro tasto dolente è quello delle stagioni sciistiche, messe sempre più in crisi sia dal cambiamento climatico che dalla crisi energetica.

«Lo sci di pista si è diviso dall’alpinismo, diventando un’attività turistica, negli anni Trenta: oggi il problema è che le vallate di montagna non possono sopravvivere senza turismo. Sono quindi dipendenti dallo sci e il cambiamento climatico crea tanti problemi in tal senso, dal momento che se le piste non sono innevate il turista non arriva e la neve artificiale richiede molta energia. La soluzione è quindi trovare altre forme di turismo invernale a bassa quota, promuovendo ad esempio attività legate al camminare in montagna. Anche i miei musei, il progetto più grande della mia vita, sono un fatto turistico: è un modo per raccontare la montagna, per aprire gli occhi a tutti e non solo agli esperti».

Una gestione oculata delle problematiche legate alla montagna e al suo ecosistema appare imprescindibile. Che idea s’è fatto, in quest’ottica, dell’operato di enti quali la Fondazione Dolomiti Unesco?

«Ritengo che finora il suo operato abbia funzionato abbastanza bene. Un problema, ma questo riguarda anche la gestione politica dei territori, è invece il traffico sulle strade delle Dolomiti. Sui passi, in estate, il rischio è di trascorrere più tempo in macchina che fuori, dal momento che non si trovano posti e spesso si assiste allo scempio di vedere le macchine sui prati. Bisogna quindi trovare il modo di chiudere le strade, aprendo naturalmente al trasporto pubblico: il turista deve poter arrivare con la sua auto e poi non toccarla più fino a quando riparte».

Tempo fa si era espresso in relazione ad un altro fenomeno riguardante la cultura della montagna: il reinserimento e la gestione di predatori quali lupi e orsi. Quali sono i suoi pensieri riguardo alle scelte effettuate sul nostro territorio?

«Ritengo che l’orso in Trentino non abbia fatto finora tanti danni, mentre la presenza del lupo è un problema enorme per i contadini che portano pecore e vitelli in montagna e nelle malghe. Questa transumanza deve rimanere perché fa parte della bellezza dell’ecosistema montano e ha un grande valore turistico oltre che economico. Se non c’è la possibilità di tenere i lupi a distanza, quest’attività è destinata a finire: anche gli animalisti devono comprendere che il problema è presente. Ci troviamo di fronte a branchi di lupi che uccidono anche cinquanta pecore a notte: non sto assolutamente dicendo di abbattere tutti i lupi, ma che bisogna trovare il giusto equilibrio tutelando tutti gli animali».

Lanciando uno sguardo all’alpinismo contemporaneo, può identificare un suo «erede»?

«Non riesco a identificare un mio erede, dal momento che questa è un’era del tutto nuova e con molti alpinisti di qualità. Quello che però voglio sottolineare è che purtroppo non si è ridotto il numero di vittime in montagna fra i più grandi alpinisti: il pericolo in montagna c’è sempre e nessuno, entrando in questo ambiente, è sicuro di ritornare a casa. Per questo non faccio pubblicità a quest’attività: io ho avuto la fortuna di sopravvivere, di studiare la storia alpina e trovo incredibile la letteratura che ci è rimasta: voglio proseguire nel mio racconto sull’alpinismo tradizionale, sottolineando però i suoi grandi pericoli».

Un’ultima battuta: dal suo punto di vista qual è la più grande lezione che può trasmetterci, oggi, la montagna?

«Il fatto che l’essere umano ha dei limiti e proprio di fronte alla montagna ci possiamo rendere conto della nostra piccolezza: una volta l’alpinista si sentiva un eroe, mentre ora dev’essere esattamente l’opposto».