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giovedì 23 Febbraio, 2023

Tedesco-iraniano condannato a morte, Berlino espelle due funzionari

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Le autorità iraniane hanno accusato Jamshid Sharmahd di aver collaborato con l'intelligence degli Stati Uniti e di spiare il programma di missili balistici dell'Iran. Scholz: «chiediamo al regime iraniano di revocare il verdetto»

Il ministero degli Esteri tedesco ha convocato l’ambasciatore iraniano a Berlino e ha comunicato l’espulsione di due funzionari dell’ambasciata a seguito della condanna a morte del 67enne iraniano-tedesco Jamshid Sharmahd, accusato di terrorismo da Teheran.
«Sullo sfondo della condanna a morte di Jamshid Sharmahd, annunciata ieri, ho fatto convocare l’incaricato d’affari dell’ambasciata iraniana. È stato informato che non accettiamo la massiccia violazione dei diritti di un cittadino tedesco», ha reso noto la ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock. «Di conseguenza, il governo tedesco ha dichiarato indesiderabili due membri dell’ambasciata iraniana e ha prontamente chiesto loro di lasciare la Germania. Chiediamo all’Iran di revocare la condanna a morte di Jamshid Sharmahd e di consentirgli un processo di appello equo e corretto», ha aggiunto Baerbock. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha chiesto all’Iran di revocare la condanna a morte. «Il regime iraniano combatte il proprio popolo in ogni modo possibile e ignora i diritti umani. La condanna a morte contro Jamshid Sharmahd è inaccettabile. Condanniamo ciò con la massima fermezza possibile e chiediamo al regime iraniano di revocare il verdetto», ha scritto Scholz su Twitter.
Jamshid Sharmehed ha, oltre a quella iraniana, anche la cittadinanza tedesca e risulta residente negli Stati Uniti. Sul suo caso si è espressa la Corte rivoluzionaria di Teheran. Secondo quando riportato da Mizan, Sharmehed è ritenuto il leader del «gruppo terroristico Tander», accusato di aver realizzato «contenuti offensivi contro l’Islam» e «pianificato atti terroristici». Il 67enne è, secondo la magistratura di Teheran, il leader dell’ala armata di un gruppo che sostiene la restaurazione della monarchia rovesciata dalla Rivoluzione islamica del 1979. Le autorità iraniane lo hanno accusato di aver collaborato con l’intelligence degli Stati Uniti e di spiare il programma di missili balistici dell’Iran. È stato anche accusato di aver pianificato una serie di attentati, tra cui quello alla moschea, in cui sono state uccise 14 persone e ferite più di 200. La sua famiglia ha dichiarato che era solo il portavoce del gruppo di opposizione e accusa i servizi segreti iraniani di averlo rapito da Dubai nel 2020.
Intanto Pegah Moshir Pour, italiana e iraniana che ha portato sul palco del Festival di Sanremo il dramma della repressione in Iran, ha parlato sul quotidiano La Ragione in un’intervista a firma del direttore, Fulvio Giuliani. «I ragazzi – ricorda Pegah – non possono amarsi, non possono fare esperienze, passeggiare mano nella mano per strada, poter scegliere il proprio futuro. Non possono entrare in politica. C’è un’intera sezione dell’orrido carcere di Evin piena di universitari detenuti da anni. Evin è chiamato anche “la bocca dell’inferno”, perché quando vi entri si può non uscirne più. Non ne escono neanche le ossa. Ultimamente si è raccontato di una certa clemenza del regime e del rilascio di qualche attivista, ma è soltanto fumo. Quelli che vi sono rinchiusi sono tantissimi. Non conosciamo le loro condizioni e la situazione è ancora gravissima. Eppure le dittature hanno un ciclo. Hanno un inizio e una fine. Ora ci stiamo avvicinando alla fine della dittatura iraniana».