La ricerca
giovedì 23 Febbraio, 2023
di Marco Ranocchiari
«Le antiche genti che vivevano in quello che oggi chiamiamo Trentino hanno sempre avuto un rapporto stretto e ricco con l’orso bruno, che forse oggi è andato perduto». Indagare questo rapporto a partire dalla preistoria è l’obiettivo di Bears & Humans Project, ambizioso programma di ricerca realizzato dal MUSE – Museo delle Scienze e dalla Fondazione Caritro, i cui risultati saranno presentati oggi alle 10.30 alla sala conferenze della Fondazione in via Calepina 1. Il progetto, che si è avvalso della collaborazione di cinque università e delle Soprintendenze di Trento e Bolzano, è diretto dall’archeologo e archeozoologo del Muse Nicola Nannini.
Il vostro lavoro racconta il rapporto tra orsi e umani negli ultimi diecimila anni. Che metodologie avete seguito per affrontare un tema così vasto?
«Il progetto è stato caratterizzato da una notevole interdisciplinarità, che ha permesso di avere visioni diverse sullo stesso tema da parte di professionisti internazionali. Insieme ai miei colleghi Alex Fontana e Rossella Duches abbiamo utilizzato una grande varietà di approcci: dalla paleobalistica, che analizza gli impatti di frecce e lance su ossa di carcasse di animali, a tecniche usate in campo criminologico. Abbiamo utilizzato microscopi ad altissima risoluzione ed effettuato analisi biochimiche. Per quanto riguarda l’interpretazione, che è sempre il vero cruccio dell’archeologo, ci siamo appoggiati anche alle fonti bibliografiche etnografiche».
Perché proprio il Trentino?
«Il Trentino, insieme all’Abruzzo, è una regione da sempre associata all’orso bruno. È qui che erano sopravvissuti gli ultimi esemplari di una popolazione presente in Europa da oltre 250 mila anni. E sempre qui ci sono stati tentativi di reintroduzione molto antecedenti a quello che ha preso piede negli anni ’90, grazie a Gino Tomasi, direttore dell’allora Museo Tridentino di Scienze Naturali, che tra il 1959 e il 1978 aveva fatto ben tre tentativi, purtroppo fallimentari. Sempre Tomasi diede un impulso allo studio di esemplari storici degli orsi trentini, gettando le basi di quella che oggi è una delle collezioni di archeozoologia più importanti d’Italia. Inoltre negli ultimi 14000 anni di storia, che in Trentino sono rappresentati in maniera praticamente ininterrotta, uomini e orsi hanno frequentato gli stessi territori: è quindi il luogo ideale per questo tipo di indagine».
E i ritrovamenti archeologici confermano questa eccezionalità?
«Decisamente. A partire dal paleolitico verso i periodi più recenti sono documentati reperti molto particolari, come denti lavorati per ottenere monili, ossa trasformate in utensili, associazioni di resti di orso a sepolture umane. Un reperto incredibile è quello di Riparo Cornafessa, nel comune di Ala, dove siamo riusciti a identificare il colpo che uccise un giovane orso circa 12 mila anni fa: si tratta del primo esempio conosciuto di caccia all’orso con arco e frecce. In siti come quello delle palafitte di Ledro, invece, le ossa degli orsi portano tracce di lavorazione umana, frutto di trattamenti simbolici e rituali raramente riscontrati in altri reperti archeologici del mondo».
Come venivano lavorate?
«Le carcasse venivano trattate con gesti standardizzati e ripetuti per ricavarne le risorse, mentre crani e mandibole venivano forati per scopi non utilitaristici o alimentari. Sui margini di alcuni fori sono state ritrovate tracce di inserimenti di pali in legno, identiche a quelle prodotte da noi sul campione sperimentale».
Venivano quindi esposte a scopo rituale?
«Rispondere alla domanda “perché” è la vera sfida dell’archeologia. Di fronte a comportamenti umani così peculiari quello che possiamo fare è cercare chi, in un passato magari meno antico, adottava tradizioni e gesti simili. La somiglianza più suggestiva è quella osservata in popoli molto lontani, come gli Ainu del nord del Giappone, che praticavano culti religiosi legati all’orso».
L’orso, quindi, ricopriva un ruolo simbolico particolare. Anche in Trentino?
«Difficile da dire. Di sicuro le evidenze archeologiche dicono che è un animale radicato nella realtà trentina. Ritroviamo le sue tracce non solo nei boschi ma anche nel cosiddetto mondo civilizzato, fino a oggi. Basti pensare agli stemmi di certi comuni, alla leggenda di San Romedio, fino al simbolo di Trentino Trasporti. L’uomo ha sempre visto l’orso come una specie di alter ego, un interlocutore simbolico».
Avete fatto scoperte inaspettate?
«Sì, una di queste riguarda i risultati delle analisi biochimiche. Gli orsi bruni sono rimasti gli stessi, eppure è emerso che migliaia di anni fa, nel tardo paleolitico, seguivano una dieta molto più vegetariana rispetto a oggi, che pure è vegetariana all’80%. Ci aspettavamo l’esatto opposto, dato che essendo le temperature più rigide c’era minore disponibilità di vegetali. Dovremo approfondire le ragioni di questo risultato».
Quali sono le implicazioni di questa ricerca?
«Studiare l’orso spalanca un sacco di cassetti da esplorare. Oltre alle nuove conoscenze e alle migliaia di reperti che hanno arricchito le collezioni del Museo, ci sono state iniziative di divulgazione, conferenze, seminari, corsi di aggiornamento, attività didattiche, pubblicazioni. Non escludiamo che ci possa essere lo spazio per una mostra al MUSE, chissà. Sicuramente tutte queste attività contribuiscono a restituire alla cittadinanza nuovi racconti sulla preistoria trentina capaci anche di aumentare il valore del territorio in termini di patrimonio storico-archeologico».
Un aiuto anche per la coesistenza con l’orso oggi, un problema sempre dibattuto negli ultimi anni?
«Quello che ci ha colpito di più è stato scoprire che le antiche genti che vivevano in quello che oggi chiamiamo Trentino hanno sempre avuto un rapporto stretto e articolato con l’orso bruno, che forse oggi è andato un po’ perduto. Ci auguriamo che questo tipo di ricerche, che fanno rendere conto di quanto siamo legati nella nostra storia, possa aiutare a recuperarlo, avvicinando di più le persone agli animali selvatici».