L'esperto
lunedì 6 Marzo, 2023
di Simone Casciano
Sono passati ormai più di 365 giorni dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina. Se le previsioni di una guerra lampo di Putin sono state presto spazzate via dalla resistenza del popolo ucraino e dal supporto alla causa dell’occidente, anche le speranze di pace sono al momento poco più che un lumicino in lontananza. Questo lungo anno di conflitto ha vissuto di escalation tanto orizzontali, allargandosi a varie parti del vasto stato ucraino, quanto verticali, con l’uso cioè, da parte russa, di armamenti sempre più distruttivi. Per analizzare la situazione Francesco Strazzari, professore di relazioni internazionali alla Scuola Universitaria Superiore Sant’Anna di Pisa, ha scritto Frontiera Ucraina. Un prezioso trattato di geopolitica, rivolto, nelle premesse dell’autore, al largo pubblico che è stato presentato a Trento ad un incontro con Strazzari sabato mattina alle 10:30 presso la Bookique.
Professore nell’incipit del suo libro spiega che il termine frontiera inteso per l’Ucraina ha molteplici significati
«Certo il primo è ovviamente quello di confine dove si sta vivendo un conflitto armato. Il secondo è quello di frontiera tra paradigmi diversi di ordine mondiale che a loro volta si scontrano e mirano al primato egemonico attraverso questa guerra. Mi riferisco in particolare alla Russia che attaccando la sovranità di un vicino ha rimesso in discussione le relazioni internazionali globali e disvelato le proprie ambizioni imperialiste, ma anche agli Stati Uniti, alla Cina che si sta muovendo magari in maniera più defilata e infine a tutto un pezzo di mondo, a lungo colonizzato, che fatica a prendere posizione su questo conflitto.
Il terzo significato di frontiera per l’Ucraina è legato all’Europa. Kiev sempre più dentro al patto atlantico, sempre più vicina all’UE la definisce come l’estremo confine a est dell’Unione.
Da ultimo la zona di frontiera intesa come quello spazio dove, come spesso accade, si vive secondo norme diverse. In cui bisogna capire la differenza tra ciò che viene normato e poi cole le persone realmente vivono in quei territori».
Professore sono passati ormai 365 giorni, un lungo anno, e la guerra è ancora qui
«È ancora qui e temo durerà ancora a lungò perché non c’è alcuno spiraglio diplomatico al momento, su questo bisogna essere realisti. Dall’altra parte è la mole di armamenti mobilitati a dirci che il conflitto si protrarrà a lungo. Putin di sicuro ha fatto male i suoi conti nell’aspettarsi che l’Ucraina si sarebbe aperta al suo arrivo. Il paese si è opposto, mentre l’Europa e gli USA si sono mobilitati al suo fianco. Qyesto conflitto ha fermato l’avanzata del disegno imperialista russo, ma al suo interno continua a espandersi. Ora tutti noi abbiamo una responsabilità. Ce lo impongono i massacri avvenuti sul territorio, quelli dei civili, le decine di migliaia di morti militari e le scene che arrivano da città come Bakhmut, nota ormai come “il tritacarne”. Tutto questo ci pone una domanda: Fino a che punto vogliamo lasciare l’esito del conflitto esclusivamente nelle mani della dinamica militare e quando invece la politica inizierà a pesare necessarie scelte di compromesso?»
Ecco, ma allora continuare a fornire armi non aiuta a finire prima il conflitto?
«La premessa doverosa è che non ci sono alternative. Se non si fornissero armi all’Ucraina il conflitto finirebbe magari prima ma con l’annessione di Kiev alla Russia. Detto questo, se andiamo a vedere l’evidenza empirica che arriva dagli ultimi decenni, quello che osserviamo è che la guerra tende a espandersi e a creare le condizioni per il suo mantenimento e ingrandimento. La guerra stessa prende in mano la guida del processo politico, diventando un qualcosa su cui non abbiamo più un controllo. La guerra in Siria dura da un decennio per esempio. Bisogna capire che la guerra è generativa di un ordine diverso e anche questa non fa differenza. Lo sentiamo nei venti nazionalistici e militaristici che spirano in sempre più paesi e c’è anche un altro fattore».
Cioè?
«Veniamo da 70 anni di relativa pace e disarmo in Europa, ma ora la spesa militare ha ricominciato a salire. Questo necessariamente a discapito di altre voci di spesa pubblica. Vivere in una democrazia armata è una cosa che non conosciamo, non sappiamo quale sarà l’impatto di questa spesa al riarmo sul nostro tessuto democratico».
Esistono conflitti del passato che ci possono aiutare a comprendere questa?
«No si tratta di un unicum perché iniziata da un paese con potere di veto nel consiglio di sicurezza Onu. La Russia, e Putin, arrivano a questo conflitto dopo un processo in cui hanno messo in discussione la storia dalla fine delle guerra fredda in poi e ora ne vogliono anche riscrivere anche il finale, rigiocare la partita».
Ecco ci aiuta meglio a comprendere cosa sta succedendo dall’altra parte della frontiera?
«Putin è il figlio delle fallimentari transizioni russe degli anni ’90. Lì il treno che doveva portare la Russia, e non solo, verso una società aperta e democratica è deragliato fragorosamente. Putin nasce da quel fallimento. La teoria che espongo nel libro è che lui da un paio di decenni lavori per arrivare esattamente in questo punto. Sono tra i pochi che lo ha sempre descritto come un leader reazionario, conservatore e nazionalista anche quando in molti preferivano vedere il capo di stato post ideologico da cui acquistare gas a basso prezzo. Mentre gli stati europei facevano affari però lui costruiva in patria una dottrina giustificazionista per portare la Russia al conflitto: alleanze interne, cultura revanscista, la narrazione contro-valoriale verso l’occidente aperto e tollerante. Nel libro indago questo e spiego come questa dimensione narrativo-simbolica sia importante per comprendere il conflitto»
Quali sono stati gli errori dell’Europa?
«L’errore fondamentale è stato quello di pensare all’Ucraina, e a quel pezzo di mondo, solo come un ostacolo tra noi e la Russia, invece che un terreno su cui coltivare democrazia, mercato e stato di diritto. Abbiamo lasciato l’Ucraina in un limbo e quando ce ne siamo accorti, dopo il 2014 e la Crimea, era ormai troppo tardi e Putin aveva la forza di opporsi a sanzioni e azioni diplomatiche. Chiunque abbia avuto gli occhi sull’Ucraina sa quanto a lungo il paese ha fatto fatica a costituirsi come un vero e proprio stato democratico, ma invece di rendere ciò un elemento squalificante avremmo dovuto aiutarlo. L’Europa non ci è riuscita, ma anche perché dall’altra parte c’era la Russia che ha sempre considerato Kiev il suo giardino di casa e sabotato i suoi processi democratici».
Quali sono le condizioni che potrebbero portare alla pace?
«Diciamo che aver ridotto l’intero conflitto a una questione di controllo su porzioni di territorio non aiuta. Questa riduzione dello scontro a forme sovrane che si autoescludono non porta da nessuna parte. Certo sono anche zone di interessi economici, il Donbass è area di grande estrazione mineraria, l’ovest è fertile. Si stanno però affacciando proposte interessanti come i 12 punti cinesi».
Ecco la Cina che ruolo può ricoprire?
«Di sicuro non quello di mediatore perché l’occidente non la considera tale, ma può, in uno schema concordato, avere il compito fondamentale di portare la Russia al tavolo delle trattative. Però la Cina non vuole nemmeno una Russia scompaginata e indebolita e questo si lega anche alla questione di Putin».
Cioè?
«Lui non ha una via d’uscita dal conflitto se non nella vittoria ed è un problema. Non potrebbe essere altrimenti per un autocrate che ha costruito la sua giustificazione di potere su questa guerra. Anche nella sua propaganda ha legato la sopravvivenza della nazione alla sua figura e su questo sta costruendo la pericolosa escalation nucleare. C’è il rischio che in Russia salti tutto, anche per questo la Nato sta procedendo con cautela e la guerra rischia di essere ancora lunga».
Un’ultima domanda, dove sono i costruttori di pace? Quei movimenti che, in guerre passate come i Balcani, si opposero al conflitto anche interponendo i propri corpi alle forze armate?
«La situazione è diversa, è più difficile da comprendere e significare. Esiste comunque un fronte solidaristico che si è mosso dal primo giorno. Anche a livello accademico in molti stanno delineando un pensiero di pace. Quello che manca, rispetto ai Balcani, è quella mobilitazione al fronte con forze di interposizione. Questo per vari motivi, il tabù della guerra si è eroso nel tempo, tanto nella politica che nella società. Direi che si stanno ridefinendo i rapporti tra la giusta causa e la pratica del dissenso. Io auspico che questo riassestamento sfoci in una grande mobilitazione dal basso su larga scala per la pace. Già ora nei sondaggi si vede che in Europa c’è una grande richiesta di stop alla guerra che non trova risposta nelle politiche dei paesi. Prima o poi queste dinamiche si incontreranno, dobbiamo assicurarci però che questo non faccia il gioco di Putin».