editoriale

martedì 7 Marzo, 2023

Ubriachezza, storia e antropologia

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La maggior parte degli incidenti causati dalla guida in stato di ebbrezza sono collegabili a occasioni di svago e divertimento riferiti a persone in fascia adulta di mezza età. Un intervento è necessario e forse una riflessione storica può essere di aiuto per immaginarne alcuni termini

Qualche giorno fa  il T ha evidenziato l’emergenza sociale degli incidenti causati dalla guida in stato di ebbrezza. Analizziamo alcune cifre riportate nell’articolo, iniziando dalla crescita registrata nel 2022 rispetto all’anno precedente: i casi relativi a incidenti simili sono aumentati del 90% (dati del comando provinciale dei carabinieri). Una sensibile maggioranza dei rilievi (oltre il 70%) riguarda eccessi meritevoli di conseguenze penali (più di 0,8 grammi per litro di alcol nel sangue). Infine, va sottolineato come la maggior parte degli episodi siano collegabili a occasioni di svago e divertimento riferiti a persone in fascia adulta di mezza età. Un intervento è necessario e forse una riflessione storico-antropologica può essere di aiuto per immaginarne alcuni termini almeno.

Al di là delle sacrosante previsioni di punibilità di chi trasgredisce le norme, pare infatti opportuno chiedersi perché si beve, con particolare attenzione alla dimensione ricreativa e collettiva dell’ubriachezza. La domanda è molto semplice, e come spesso accade per quesiti elementari, la risposta è complessa. Indagini socio-antropologiche ante-litteram, risalenti all’Europa dei secoli XVI e XVII, misero in collegamento il notevole aumento del consumo alcolico con il crescere delle tensioni sociali e della povertà, basandosi su quello che è stato a posteriori definito «il modello della fuga dal disagio». Lo stesso modello è stato utilizzato anche per spiegare l’attitudine all’ubriachezza dei popoli amerindi in epoca coloniale. La gestione delle relazioni con i colonizzatori avrebbe portato alcuni indigeni (sia singoli, sia interi gruppi) ad arrendersi davanti all’impossibilità della convivenza e a lasciarsi andare verso una dimensione di obnubilamento e rifiuto della realtà, facilitata da buone dosi di bevande o sostanze eccitanti. C’è dell’altro. Studi dedicati a diversi Paesi di età moderna hanno dimostrato come nelle taverne si bevesse non tanto per dimenticare (come recita il noto adagio), quanto più di frequente per fare o sentirsi parte di una certa ritualità sociale. Bere per appartenere: condividere, offrire, brindare erano tutti gesti importanti sia per stringere e rinforzare legami, sia per favorire la costruzione di identità collettive. Bere in abbondanza poteva anche essere il modo per dimostrare industriosità, forza e resistenza. Le élite di età moderna non disdegnavano incontrarsi per bevute collettive in club esclusivi, dove celebravano le virtù del vino e il suo potenziale creativo. Tale potenziale è confermato dalle esperienze: i cinque statunitensi insigniti del premio Nobel per la letteratura nel Novecento avevano tutti problemi di alcolismo.

La dominazione coloniale europea nelle Americhe cercò di smantellare il sistema di credenze che attribuiva origine divina all’ubriachezza controllata e ai suoi effetti. Pulque e chicha, i fermentati più diffusi in Messico e Perù, furono così indotti a perdere il proprio carattere sacrale per assumerne uno individualista e mercantile, volto a stimolare il consumo personale dietro pagamento di un corrispettivo: un vero e proprio stravolgimento dell’ordine abituale delle cose. In molti tra gli indigeni presero allora a bere non tanto per dimenticare, quanto piuttosto per ricordare e celebrare la propria identità. Lo facevano richiamando i rituali religiosi precedenti la conquista, caratterizzati da una concezione di moderazione poco familiare agli europei: sbronzarsi sì, ma solo in determinati contesti pubblici e a precise condizioni.

Il (bellissimo) libro del biologo statunitense Robert Dudley, La scimmia ubriaca (The Drunken Monkey), ha esplorato un’ipotesi molto suggestiva e niente affatto campata in aria: l’attrazione umana vero l’alcol potrebbe derivare anche dai primati, antenati dell’Homo Sapiens, per i quali una risorsa alimentare fondamentale erano frutti molto maturi e dunque fermentati. L’alcol prodotto dai lieviti della frutta stagionata, infatti, serve a combattere i batteri ed è dimostrato che se le alte concentrazioni di alcol sono senza dubbio tossiche, un’esposizione limitata è in grado di dare diversi benefici. L’assunzione moderata potrebbe addirittura avere svolto un ruolo chiave nel processo evolutivo, premiando gli animali (compreso l’uomo) capaci di godere dei vantaggi dell’etanolo nella lotta contro diversi componenti tossici. Il problema sta nel definire l’assunzione moderata: le variabili da un individuo all’altro sono moltissime. Dudley ha poi osservato come il consumo volontario di bevande fermentate nei primati sembri aumentare in casi da noi umani definiti di stress, uno stato che per le scimmie può corrispondere, per esempio, alla separazione dal gruppo di appartenenza. Il biologo statunitense non leva certo di mezzo la componente culturale e ambientale, ma sottolinea che l’attrazione verso l’alcol degli uomini contemporanei può essere in parte eredità dei nostri antenati primati. Concludendo la complessa risposta alla semplice domanda del perché donne e uomini siano così facilmente attratti dall’alcol, non dobbiamo lasciare da parte il piacere. Jean Anthelme Brillat-Savarin, comunemente riconosciuto come il fondatore della gastronomia moderna, nel best-seller ottocentesco La Fisiologia del Gusto (1825) si occupò tra le altre cose delle bevande forti. Il loro desiderio – scrisse – accomunava tutti gli uomini, compresi «quelli che si è convenuto chiamare selvaggi». E aggiunse: «L’alcol è il monarca dei liquidi e porta all’ultimo grado l’esaltazione del palato», le bevande nate grazie all’arte della distillazione «hanno aperto nuove fonti di godimento». Questo non toglie, aggiungeva Brillat-Savarin, che l’alcol fosse «pure un’arma formidabile, poiché le nazioni del nuovo mondo sono state domate e distrutte più dall’acquavite che dalle armi da fuoco». La distruzione continua sulle strade del Terzo Millennio. È vero, l’alcol è un’arma, ed è per questo che per limitarne i danni è assai opportuno conoscerlo a fondo.