Il personaggio

martedì 7 Marzo, 2023

Manar Mosfaqa, rapper della Rotaliana: «A 17 anni il mio primo brano rap per sfogarmi»

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La 21enne di Mezzocorona è l’unica trentina selezionata per il docutalent Rai «The rap game Italia»
Manar Mosfaqa

Sembra che la Piana Rotaliana sia terra feconda per la moltitudine di giovani artisti che prima o dopo passano attraverso la «rete ammiraglia»: prima Mattia Lever e Mattia Rizzolli, pupilli della Clerici, e ora Manar Mosfaqa, rapper 21enne originaria di Mezzocorona, da poco approdata su Raiplay con «The rap game Italia», il primo docu talent sul mondo del rap.

Manar, quando hai iniziato a fare musica?
«Intorno ai 17 anni, quando ho scritto la mia prima canzone, a cui tra l’altro non ho mai dato un titolo: dovevo dire delle cose, sentivo il bisogno di parlare e sfogarmi, e non riuscivo a farlo in una conversazione: ho trovato sfogo nella scrittura».

Perché proprio il rap?
«Perché è il genere che ascoltavo di più: questo tipo di musica ti permette di essere molto libero, puoi esprimere un concetto così com’è oppure puoi crearci una storia intorno, come i poeti con le poesie».

Com’è iniziato tutto?
«Sono partita scaricando una base che mi piaceva da YouTube e ho scritto il mio primo testo buttando fuori tutto ciò che avevo dentro. Quando ho detto a mia madre di aver scritto una canzone la prima reazione è stata: “Ma vai a studiare”. Poi in realtà ascoltando il mio pezzo si è commossa. Parlavo di un peso che mi portavo dentro, una serie di problemi personali come la separazione dei miei genitori: ho immagazzinato tutto e l’ho buttato fuori. Partecipando a qualche contest locale ho avuto un riscontro positivo dalle persone: le cose che voglio dire arrivano e questo mi fa piacere».

Di cosa parli nelle tue canzoni?
«Il primo step è l’ascolto delle basi, che può richiedere delle ore: in base a quello che sento mi si attiva qualcosa dentro e inizio a scrivere. Non c’è mai un argomento, quello lo scopro man mano che scrivo: non lancio messaggi ma nei miei testi metto degli elementi legati alla mia personalità e intimità. Allo stesso tempo ammetto che non esisto solo io quando scrivo: altri mi devono ascoltare e quindi la musica non va vissuta unicamente come terapia personale».

C’è un momento che definiresti il tuo punto di svolta?
«Un amico mi ha passato il contatto del mio attuale produttore, Alessio Amistadi, in arte Dek. Quando ci siamo conosciuti abbiamo registrato il mio pezzo “Cliché”: c’erano dei piccoli errori che io non riuscivo a captare, così gli ho chiesto di compormi una base ed è venuto fuori il pezzo finale. Andare da lui è stato il mio punto di svolta, perché è una persona molto abile e ha l’orecchio da musicista. Ho iniziato a prendere questo mondo seriamente con lui».

Come sei arrivata in Rai?
«Sul profilo del rapper Wad (uno dei giudici, ndr) si parlava di questo “The Rap Game” che sarebbe partito a breve. Ho cercato informazioni ma non si trovava nulla, così il 13 luglio gli ho scritto, sapendo che mai mi avrebbe risposto, “sono la ragazza che vincerà il tuo programma”. Lui mi ha inviato il form per l’iscrizione. Ad agosto mi è arrivata la mail che mi comunicava la selezione ai casting e una settimana dopo la telefonata dalla Rai. Ero sotto shock: tra tutti ero stata chiamata proprio io».

Poi cos’è successo?
«Dopo esser stata selezionata sono partita per Milano e sono stata la prima ad arrivare all’hotel che era il punto di ritrovo. Lì ho conosciuto gli altri cinque rapper, tra cui Giulia Masci, in arte Rosa White: ero molto stupita di conoscere una ragazza perché di solito quello del rap è un mondo fatto di uomini. C’erano otto sfide in totale, molto dure. Il mio percorso è stato tosto perché ero l’unica senza esperienza di palchi e pubblico effettivo. È risaltata la mia timidezza e inesperienza sul palco e mi hanno un po’ bastonata: sono arrivata a pensare che io la musica non la dovevo fare. Grazie ai ragazzi ho però capito che ho solo bisogno di fare più esperienza. La finale l’ho vissuta più a cuor leggero, ed è stata fantastica».

Per il tuo futuro cosa bolle in pentola?
«Punto a far uscire una canzone ogni due mesi, a realizzare delle canzoni strutturate, che possano andare magari in radio o comunque entrare nel mercato attuale e, perché no, magari a fare qualche featuring con i big del settore».

La musica sarà la tua vita?
«Gli studi in Infermieristica vanno avanti per senso del dovere: spaccare nel mondo della musica è difficile, e quindi mi serve una strada principale. Non me la sento di puntare tutto sulla musica e rimanere magari senza tra qualche anno: posso anche scrivere belle canzoni ma se al mercato non piacciono sono fuori».