Emergenza idrica
venerdì 17 Marzo, 2023
di Stefano Marini
L’acuta carenza idrica di questi mesi ha reso ancora più palese il fatto che viviamo in un’epoca di sconvolgimenti climatici apparentemente senza risposte. Per Tommaso Bonazza, il portavoce del comitato permanente per la difesa delle acque del Trentino, le soluzioni esistono, sono praticabili e anzi, sono già state realizzate altrove, ma richiedono di mettere in discussione i paradigmi esistenti, affermando un modo diverso e più naturale di rapportarci col bene acqua.
Cosa dovremmo fare per risolvere la crisi idrica che sta attanagliando il Trentino e il resto dell’arco alpino?
«I modelli di previsione climatica ci dicono che nei prossimi anni il versante sud delle Alpi sarà sempre più arido. Avremo periodi siccitosi di lunga durata, inframezzati da violentissime precipitazioni. Non pioverà di meno in assoluto, ma la stessa quantità di pioggia cadrà in meno giorni e questa maggiore intensità causerà danni. A fronte di un simile scenario esistono metodologie operative che, se attuate, ci permetteranno di mantenere l’acqua in quota, invece di farla scappare via. L’obiettivo deve essere regolare il flusso a valle, in modo da garantire una riserva d’acqua per lunghi periodi. In primo luogo serve rallentare lo scorrimento dei corsi d’acqua, rinaturandoli e intervenendo sulle opere di canalizzazione artificiali degli ultimi 200 anni. In tal senso è opportuno ridare vita agli argini e garantire il ritorno alla forma ad anse naturale dei fiumi. Ancora, bisogna creare canali laterali e zone umide, che sono preziosi sequestratori di carbonio capaci di garantire la biodiversità e di fornire acqua ai fiumi in maniera costante. Infine è necessario sviluppare una serie di bacini naturali col fondale permeabile in grado di comunicare con le falde, progettando la vegetazione circostante in modo da limitare i problemi di evaporazione. La logica deve essere quella dell’intervento puntiforme, realizzare tanti piccoli bacini non pochi ma enormi».
Bacini naturali, non bacini artificiali. Perché?
«I bacini artificiali sono inefficienti. In primis il trasporto dei sedimenti e della materia organica al loro interno viene impedito. È una criticità, perché tale materiale va rimosso periodicamente, mentre in un contesto naturale scivolerebbe a valle, fornendo vita e nutrimento a tutto il corso d’acqua. Nei bacini artificiali non si riesce nemmeno a garantire il trasporto del sedimento più grossolano, che serve per le sponde. In generale, queste strutture impediscono ai fiumi di rendere i loro servizi ecosistemici. Esse interrompono la connettività fluviale con conseguenti esternalità negative a catena, ad esempio la separazione delle specie di fauna e microfauna lungo tratti diversi di un corso d’acqua con conseguente indebolimento delle specie. Inoltre i sedimenti organici che si accumulano nei bacini artificiali vanno smaltiti e subiscono processi di fermentazione che finiscono per liberare in atmosfera gas climalteranti. Con i bacini naturali tutti questi problemi non si verificano, a fronte però di tutta una serie di vantaggi».
Ad esempio?
«La capacità di autodepurazione di un torrente in buone condizioni, o la fitodepurazione dei terreni o ancora la micro regolazione del clima nelle zone limitrofe a un corso d’acqua. I servizi ecosistemici fluviali hanno anche a che fare con l’approvvigionamento delle falde e quindi aiutano a combattere l’inaridimento dei territori. Si tratta di fattori concreti, il cui valore si quantifica in milioni di euro. I fiumi offrono gratuitamente servizi che se vengono a mancare devono venir garantiti dall’uomo, ad esempio coi depuratori, e con costi che ricadono sulla collettività. Questi servizi costituiscono le premesse per ottenere una ottimale conservazione della risorsa acqua e noi non riusciamo in ogni caso a raggiungere lo stesso livello di efficienza della natura».
Ci sono luoghi dove processi di rinaturazione hanno avuto successo?
«Sì, penso ad esempio all’India. Più vicino basta guardare all’Alto Adige, dove su 500 interventi di rinaturazione finanziati con fondi europei ne sono già stati realizzati circa 200. I risultati positivi si sono visti in breve tempo, ad esempio in termini di qualità delle acque, e di efficienza dei servizi ecosistemici fluviali. Questo ha prodotto vantaggi in termini di biodiversità ma anche di sicurezza dei corsi d’acqua».
Voi parlate spesso di deflusso ecologico e ve lo ponete come obiettivo. Cosa intendete?
«Oggi sui fiumi trentini abbiamo il deflusso minimo vitale, che serve a mantenere in vita i corsi d’acqua. Con il deflusso ecologico invece si dà a un fiume, non solo la possibilità di vivere ma anche di svolgere i suoi servizi ecosistemici in maniera ottimale».
Come vi ponete nei confronti della produzione idroelettrica?
«Non siamo affatto contrari all’idroelettrico, anzi ne riconosciamo il contributo positivo all’economia del Trentino soprattutto nel secondo dopoguerra. L’idroelettrico ha ancora un valore e un senso e noi lo rispettiamo, specie per le comunità che se ne avvalgono. Pensiamo però che il Trentino dal punto di vista dello sfruttamento idroelettrico sia a saturazione e che non si possano costruire nuovi impianti, specie quelli del cosiddetto mini idroelettrico, che garantiscono una produzione idroelettrica irrisoria a fronte di grandi danni ambientali. Pensiamo che sia più opportuno efficientare le centrali già esistenti, con margini considerevoli di crescita della produzione. Sappiamo poi che si va verso un tipo di clima che vedrà una disponibilità di acqua molto minore di quella del passato quindi pensiamo vada ridiscusso il paradigma idroelettrico attuale, operando una selezione delle opere idroelettriche che hanno futuro rispetto a quelle che non lo hanno».
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