L'intervista

mercoledì 22 Marzo, 2023

Ascanio Celestini: «Il fascismo non ci ha mai lasciato. È cambiato, ma fa ancora paura»

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L'attore - autore sarà in scena al Santa Chiara con il primo, storico spettacolo, «Radio Clandestina», una memoria delle Fosse Ardeatine. «Mi preoccupano le aggressioni nelle scuole, l'Italia non ha mai fatto veramente i conti con il suo passato»

Il baffo appuntito, la gestualità nervosa, gli occhi accesi come braci vive e la voce a tratti confidenziale, a tratti ferma e poi delicata nel narrare i fatti. A volte alla magia del teatro basta poco, un bravo attore e una storia importante da raccontare. È così per Ascanio Celestini e la sua Radio Clandestina. Memoria delle Fosse ardeatine, che sarà in scena questa sera alle 20.30 all’Auditorium S. Chiara di Trento. Si tratta di uno degli spettacoli di maggiore successo nella lunga carriera di Ascanio Celestini. Portato in tournée per la prima volta vent’anni fa, torna ora nella sua veste originale, che muove i suoi passi dal libro L’ordine è già stato eseguito di Alessandro Portelli e che, attraverso le duecento interviste presenti nel volume, racconta in un’ora e venti circa uno dei crimini più efferati del regime nazifascista: l’eccidio delle Fosse ardeatine. La strage avvenuta a Roma il 24 marzo del 1944 in cui persero la vita 335 persone.

Ascanio Celestini come mai, a vent’anni dal suo debutto, sente ancora l’esigenza di portare nei teatri «Radio Clandestina»?
«Eh, sono passati tanti anni, i primi spettacoli sono addirittura del 2000 credo. In realtà confesso che non ho mai smesso di portarlo in scena. Poi certo negli anni si sono susseguiti altri spettacoli, l’ultimo Museo Pasolini, ma rimane un pezzo importante della nostra storia che ci tengo a raccontare».

Come ha costruito questo spettacolo?
«Sono partito dal libro “L’ordine è già stato eseguito” di Portelli che mi ha rovesciato la prospettiva. Ho capito che non esiste una memoria singola ma ce ne sono tante, collettive, che mutano col tempo. Così dalla storia di via Rasella e delle Fosse ardeatine è nato uno spettacolo sulle vicende di Roma e dei suoi cittadini che in quegli anni sono stati al centro di tante cose».

Ecco, nell’incipit dello spettacolo, rivolgendosi a una signora, il protagonista dice che questa è una storia che «a raccontarla bene ci vuole una settimana», che cosa intende?
«Ormai siamo abituati alle notizie brevi, addirittura scriviamo accanto agli articoli il tempo di lettura, che spesso non supera i due minuti. Un lasso di tempo troppo piccolo per spiegare qualcosa. Quando ho cominciato a lavorare a questo spettacolo, mi sono reso conto che dell’eccidio a Roma, ma anche fuori, tutti sapevano qualcosa, ma invece di avere un’idea chiara dei fatti avevano delle notizie confuse. Spesso si raccontava l’azione di via Rasella, da parte dei Gap, e la strage delle Fosse ardeatine al contrario».

In che senso?
«Nel senso comune si dice che, dopo l’azione partigiana contro la colonna di nazisti in via Rasella, i tedeschi comunicarono che avrebbero eseguito una rappresaglia se i colpevoli non si fossero consegnati, ma non è così. In realtà passano poche ore dall’attacco dei partigiani alla strage, senza nessun comunicato. Ricostruendo in maniera sbagliata la vicenda si attribuiscono ai partigiani responsabilità che non avevano».

Emblematica in questo senso la riga del comunicato diramato dal comando tedesco e riportato dall’Agenzia Stefani: «L’ordine è già stato eseguito».
«Esatto, eppure tutta la storia viene raccontata in maniera sbagliata. Anche chi accetta che i partigiani non sapevano, rilancia dicendo che avrebbero dovuto prevederlo. Questo anche perché si fa fatica a raccontare l’operato dei partigiani in una città. Spesso ce li si immagina in montagna e non in una metropoli come Roma, che era anche “aperta”, quindi in teoria al di fuori del perimetro della guerra. Ecco, io cerco di raccontare quel fatto all’interno del contesto più ampio della storia della capitale dalla fine dell’Ottocento fino alla fine della guerra».

Insomma se la storiografia del senso comune è così inesatta, significa che c’è qualcosa di sbagliato nel modo in cui in Italia si è fatta e si fa memoria?
«Direi di sì, ci sono più problemi. Negli ultimi anni ho visto un pericoloso tentativo di parificazione dei crimini di guerra, c’è chi vorrebbe mettere sullo stesso piano fascisti e antifascisti, ma non è così».

Dice che non abbiamo mai fatto i conti con le nostre responsabilità?
«Diciamo innanzitutto che il 10 febbraio, quando noi celebriamo il giorno del ricordo, il resto del mondo celebra gli accordi di Parigi del 1947 che stabiliscono che l’Italia ha perso quella guerra e che stava dalla parte sbagliata. Nel nostro Paese non solo non è mai stata fatta una riflessione seria su questa cosa, sui nostri crimini, ma nemmeno si è fatta giustizia. In Italia non c’è stata nessuna Norimberga, anzi ci sono stati gerarchi fascisti che hanno fatto carriera nelle istituzioni repubblicane. Forse perché, finita la guerra, il fascismo non era più un problema e c’era chi era più preoccupato di fermare i comunisti».

Negli ultimi mesi si è assistito a eventi preoccupanti. Aggressioni fuori dalle scuole, citazioni del duce, lei che ne pensa?
«Mi preoccupano più le prime delle seconde. Ci sentiamo spesso ripetere che il fascismo è finito il 25 aprile del 1945 e che siamo noi che ne continuiamo a parlare. Io credo che ci sia un fascismo che è morto nel luglio del 1943 con le dimissioni e l’arresto di Mussolini. Subito dopo però ne è nato un altro, che ha mosso i primi passi con la repubblica di Salò e poi ha continuato la sua azione nel MSI, nella P2, nei tentativi di golpe e nelle stragi dinamitarde degli anni della tensione. Questo mi fa paura. Non il fascismo del ventennio, quello delle marce e del passo dell’oca, ma quel neofascismo che ha saputo inserirsi nel tessuto della nostra società e che ancora esiste».