L'intervista
domenica 26 Marzo, 2023
di Alessandro de Bertolini
Maurizio Zanolla, uomo dell’impossibile, è una stella assoluta dell’arrampicata di tutti i tempi. Per tutti Manolo, il Mago, ha da poco compiuto 65 anni (16 febbraio) e conserva con il Trento Film Festival un rapporto di lungo corso: «Ho quasi l’età del Festival», dice. Nel 2012 vince il premio Genziana d’oro del Cai alla 60° edizione del Trento Film Festival con «Verticalmente démodé» (2012, Italia), un film dove racconta le proprie emozioni sulle pareti «a metà strada tra i luoghi dove sono nato e i luoghi dove sono vissuto». Poi, nel 2019 si aggiudica il premio il Premio Itas del Libro di Montagna per «la miglior opera non narrativa» con il volume «Eravamo immortali» (Fabbri editore). Dopo tanti anni alle prese con il vuoto, oggi continua a vivere in Primiero, tra le sue montagne, in una baita che ha costruito con le sue mani: «Se sono ancora qui – prosegue – è perché sono un sopravvissuto. Tanta fortuna. Sono fatto così e ho imparato ad accettarmi». Una vita al limite, quella di Manolo. La vita di chi ha incontrato il successo senza averlo cercato.
Dici di essere diventato famoso per un orologio…
«È vero. Sono diventato popolare grazie alla pubblicità della Sector. Un insieme di circostanze fortunate mi ha portato su quella strada. Che ho vissuto con imbarazzo. Ricordo ancora quando mi fermavano per strada e mi riconoscevano: ero in imbarazzo, come quando mi rivedevo in televisione. Lo sponsor mi ha dato grande popolarità ma sono rimasto ciò che ero. Lo vedi, vivo qui, in 100 metri quadrati in una casa che ho costruito da solo. Siamo in quattro, io e la mia famiglia, ai margini del bosco. Ci sono nato, ai piedi di queste montagne, dove la vita è dura. Diversa da come te la fanno vedere in cartolina».
Sei un’icona dell’arrampicata, in Italia e all’estero. Sei stato un simbolo mondiale di questo sport tra gli anni ottanta e novanta. Come hai vissuto questa condizione?
«Come ti dicevo, sono rimasto quello che ero. Ho vissuto senza un numero sulla schiena e senza inseguire la competizione. C’è chi è competitivo anche a pelare le patate. Io non lo sono. Ho inseguito la mia passione per la montagna e l’unica competizione che ho avuto è stata con me stesso. Dopo tanti anni, dico che è stata dura, non è facile gareggiare con sé stessi».
Ricordi la tua prima partecipazione al Festival?
«La prima volta ero un ragazzo, ricordo poco, avevo meno di vent’anni. Presentavano un film sull’Eiger e desideravo vederlo assieme a un amico. Così scendemmo a Trento. Negli anni a seguire non fui un assiduo frequentatore del Festival. Mi interessava. Ma preferivo la montagna alle sale cinematografiche».
Poi sei diventato il grande protagonista del Festival: ti invitavano per le tue imprese, una volta anche come giurato.
«Certo me lo ricordo bene. Quell’anno, assieme ai colleghi della giuria, passai una settimana segregato in casa, chiuso dentro, a guardare film».
Meglio praticarlo, l’alpinismo, che guardarlo al cinema.
«Preferisco stare all’aria aperta. Faccio fatica a esprimere giudizi sui film che guardo e a coglierne le peculiarità. Mi colpisce di più la fotografia: che sia il mare, il deserto o una montagna. Ecco, nei film mi colpisce il modo con cui il regista gestisce questo aspetto. In alcuni momenti della vita ho perfino avuto interesse per la fotografia, la voglia di fermare un attimo o un momento. Ma è durato poco».
Perché?
«Sono nato in un’epoca in cui non si facevano fotografie».
La prima macchina fotografica?
«Probabilmente l’ho vinta a una lotteria o qualcosa di simile, non ricordo bene. Era una fotocamera di plastica, scattava solo qualche immagine. Ricordo di essere partito con il mio compagno di cordata per una scalata. Arriviamo all’attacco della via e scattiamo la prima foto. Poi scaliamo per circa 1.000 metri e alla fine della via facciamo la seconda foto. Il mio compagno si girò e mi disse: “Ma quante foto vuoi farmi oggi?” Abbiamo messo la macchina nello zaino e lì è rimasta. Più avanti cambiai idea. C’è stato un periodo in cui mi piaceva fotografare le mie scalate. O quando viaggiavo, specie in Himalaya. Preferivo il bianco/nero. Ma mi sono stufato presto, forse ero troppo esigente o forse pensavo che quell’attività rubasse troppe energie».
Ora ti manca quella documentazione, le foto che non hai fatto?
«Non ci penso. Sono rimasto tale e quale. Oggi come ieri. Non faccio le foto nemmeno col telefonino».
Cosa ti ha dato e cosa ti ha tolto la montagna?
«Non ci sarei dovuto nemmeno essere, sulle montagne. Nessuno faceva l’alpinista nella mia famiglia e nessuno mi aveva mai parlato delle montagne. Non conoscevo neanche il nome delle vette dietro casa. Neppure quello della montagna da cui scendeva il ruscello che bagnava i piedi della casa di mio nonno. Dal basso, quando le guardavo, vedevo solo pietre e sassi. Tutto un disordine, un grande caos. Poi, la prima volta che sono arrivato in cima a una vetta ho visto il mondo dall’alto e tutto mi sembrato in armonia. Un’armonia assoluta e irraggiungibile».
Eri arrivato lassù, poi non hai più smesso.
«L’alpinismo mi ha insegnato a vedere il mondo in modo diverso. Un viaggio straordinario ma anche doloroso. Andando in montagna ho imparato quello che nessuno mi aveva insegnato a scuola. L’alpinismo non è soltanto sassi. Ci sono le vittorie e le sconfitte, le conquiste e le rinunce, il coraggio e la paura. La paura del vuoto».
Ma davvero Manolo ha paura del vuoto?
«Certamente – e per fortuna. Per quanta spavalderia e incoscienza io abbia messo nel fare ciò che ho fatto, ho sempre avuto paura delle montagne e del vuoto. Questo mi ha permesso di anteporre al mio protagonismo la responsabilità e il rispetto nei confronti della vita, degli altri e dell’ambiente naturale. Devo a queste paure la capacità di adattamento alle regole che la montagna mi ha imposto. Se non le rispetti, queste regole, non torni a casa. Il timore del vuoto mi ha costantemente accompagnato, mi ha fatto riflettere su ciò che facevo, mi ha insegnato ad accettare le sconfitte, mi ha dato la forza per andare avanti. La paura del vuoto e della montagna mi ha costretto a ridimensionarmi. L’ambiente che ci circonda – dove ho praticato il mio alpinismo – è troppo grande e ci chiede rispetto. Dobbiamo entrarci in punta di piedi e sperare di uscirne vivi».
«Sperare di uscirne». È solo questione di fortuna?
«Sicuramente no, ma ci vuole anche quella. Occorrono tanto talento e tanta determinazione. Sono sopravvissuto perché ero bravo. Ma anche perché sono stato fortunato; una fortuna immensa, senza la quale non sarei qui a raccontare».
Bravura e paura, talento e fortuna. Che rapporto hai con il superamento dei limite?
«Quando iniziai a scalare, qualcuno aveva posto il limite sul sesto grado. Nella mia ignoranza, mi domandavo chi mai potesse essere stato così arrogante da aver chiuso le possibilità umane in sei gradi. Si sentiva parlare di settimo grado, è vero, ma solo come qualche cosa di impossibile e di irraggiungibile. Dovevo provarci. Aspettare non era sufficiente. Bisognava fare per capire, fare per vedere, fare per scoprire nuovi orizzonti. Poi diventi sempre più bravo, aumenti il livello, ti poni obbiettivi sempre più grandi fino quando ti trovi a scalare sul settimo e poi sull’ottavo grado. Ecco fatto, avevo superato il limite. Ma i limiti continuano a cambiare. Quando li superi te ne ritrovi altri e poi altri ancora. Oggi ci si è spinti molto oltre. Non avrei mai immaginato, quando ho cominciato ad arrampicare, di contribuire a spostare in avanti i limiti di questo sport, aprendo la strada a nuovi confini e nuovi scenari».
E la paura del vuoto, l’hai più superata?
«Vincere la paura del vuoto è stata un’impresa enorme. Quando vincevo un piccolo vuoto ne trovavo un altro e un altro ancora. Ho lottato per questo fino a che, a un certo punto della mia vita, ci sono riuscito: ricordo esattamente quel momento, quando il vuoto diventò per me un punto di appoggio. Fu una cosa incredibile. Una presa d’atto e una presa di coscienza per me necessarie. Il vuoto era il posto dove volevo essere e dove volevo stare. Scalavo slegato e continuavo a farlo su qualsiasi difficoltà. Così raggiunsi l’apice. Che non è durato molto. Non potevo continuare a lungo. Infatti, poco dopo, il vuoto si è ripresentato a rimettermi paura e a restituirmi una misura, a farmi capire che non puoi arrampicare slegato, cadere e aprire le ali per non ammazzarti. Non funzionava così. Bisogna tornare ad avere paura, timore, usare la testa, saper rinunciare, mettere nello zaino la voglia di rientrare assieme a quella di partire. Arrivare in cima non significa niente se non riesci a tornare a casa. Mi resi conto, insomma, che il superamento del vuoto era stata un’esperienza limitata nel tempo, dalla quale ero fortunatamente uscito vivo. Quando riapparvero le paure, le montagne tornarono a essere di nuovo grandi come prima, quando ero bambino. L’alpinismo è qualcosa di veramente impegnativo. Oggi devo ammetterlo, anche se un tempo non la pensavo così».
E oggi, lo segui ancora questo sport?
Non riesco a guardare il filmato di una persona che arrampica slegata nemmeno per un secondo. Anche se so come va a finire, che finisce bene, che lui non cade. Oggi non ci riesco. So quanto è delicata quella situazione. A volte, arrampicando legato, mi si sono rotti appigli che non avrei mai pensato potessero saltare. Se sono vivo è perché, quel giorno, avevo la corda. Non voglio immaginare le cose che fanno oggi i migliori specialisti di questa disciplina, i limiti che superano, le difficoltà estreme. Al solo pensiero sento male alle dita, ai muscoli, alla testa. Sono pieno di acciacchi. Mi rendo conto la carta di identità non mi permette più di fare certe cose. Ma non mi mancano, perché ho scalato tanto da non poterne più. Oggi sto bene. Non sono diventato un maniaco della scalata».
l'intervista
di Davide Orsato
L’analisi del giornalista che ha di recente pubblicato un manuale per spin doctors dal titolo «Non difenderti, attacca» e contiene 50 regole per una comunicazione politica (imprevedibile e quindi efficace)