Il personaggio
lunedì 10 Aprile, 2023
di Simone Casciano
La morte di Andrea Papi lascia una grande ferita e molte domande. C’è un prima e un dopo nel rapporto tra uomo e orso in Trentino. Questo è un punto di non ritorno, ma forse prima che le azioni si mettano in moto, come sfere su un piano inclinato che non possono interrompere la loro corsa, è il caso di fermarsi un attimo e riflettere. Se da una parte è giusto mettere in campo le azioni necessarie affinché questa tragedia non si ripeta, dall’altra l’uomo deve anche fare i conti con le proprie responsabilità. Quelle di un progetto, Life Ursus, su cui va fatto un bilancio e, se anche se ne decretasse il fallimento, di una popolazione di orsi di cui bisogna farsi carico, ricordando che siamo stati noi a portarli qui e che non possono essere loro i colpevoli di questo fallimento. Così la pensa Paolo Cognetti, scrittore, premio Itas della montagna nel 2017 con il suo Le Otto Montagne, per cui il paesaggio alpino e la convivenza tra uomo e natura sono al centro tanto delle sue opere quanto della sua vita, che trascorre in una piccola frazione della Val d’Aosta.
Cognetti che cosa ne pensa, anche alla luce degli ultimi fatti, del progetto Life Ursus?
«Io penso che sia stata una stupidaggine reintrodurre gli orsi in un’area così antropizzata come il Trentino e le nostre montagne. Non abbiamo l’estensione di altri stati, penso al Canada, all’Alaska o alla Norvegia. Luoghi dove paesi e città lasciano spazio alla vera natura selvaggia. Sulle Alpi non ci sono quegli spazi per permettere la convivenza tra uomo e orso, bisognava pensarci prima. Dovevano essere lasciati là dov’erano».
Si è un po’ giocato a fare Dio?
«Sì, l’uomo a volte è arrogante, stiamo giocando tanto a fare i nostri esperimenti con gli equilibri naturali, ma in un modo che spesso risulta negativo e che ha tragici eventi come nel caso di questo ragazzo».
E adesso la Provincia parla di misure di contenimento, di dimezzare il numero di orsi presenti sul territorio proprio perché sono troppi in uno spazio troppo piccolo, che ne pensa?
«Premetto che io amo gli orsi, ma penso che sia meglio che stiano in Alaska, in Norvegia, dove la loro vita e quella dell’uomo raramente si incontrano. Dico che qualcosa si deve fare, non si può ignorare la faccenda. Io troverei il modo di portarli via. Così come sono stati addormentati e portati sulle Alpi ora si dovrebbe fare il processo inverso. Catturarli e trasportarli in zone sicure per loro, dove possano vivere la loro vita. Se invece la soluzione è abbatterli allora mi arrabbio perché andiamo di peggio in peggio e l’uomo non si prende le responsabilità delle sue azioni. Siamo noi che li abbiamo portati qui e ora li uccidiamo o li imprigioniamo? Penso anche all’orso ancora rinchiuso al Casteller, non è giusto, ma davvero non c’è un modo, un luogo in cui possa vivere la sua natura selvaggia»?
Insomma questa idea che da uomini più evoluti saremmo stati in grado di convivere con l’orso era solo un’illusione?
«Il nostro rapporto con l’orso è sempre stato conflittuale, stessa cosa con il lupo. Per molti secoli nelle nostre montagne i grandi carnivori li abbiamo sterminati, abbiamo vinto noi e sulle Alpi abbiamo lasciato solo gli animali che erano utili per le operazioni dell’uomo. Questa è la nostra storia».
Insomma, non c’è spazio per l’orso qui?
«Per come la vedo io, noi viviamo in una megalopoli che è l’Europa e le Alpi sono il grande parco naturale di questa grande città, non dico che sia una cosa bella ma è così. Le nostre montagne sono profondamente antropizzate. Non metteremmo mai gli orsi liberi a Central Park a New York vero? Certo che no, è un’idea bizzarra. Allo stesso modo non è stata una buona idea reintrodurli sulle Alpi e su una piccola parte di esse come quella del Trentino».
Lei vive in Val d’Aosta, ma durante i suoi viaggi nelle terre selvagge le è mai capitato di incontrare l’orso?
«Si è successo durante il mio viaggio assieme a Nicola Negrin nelle terre del Nord America (raccontato nel documentario Paolo Cognetti – Sogni di grande Nord, ndr), ma sempre dalla macchina. Praticamente da quando abbiamo lasciato Vancouver, in Canada, e abbiamo iniziato il nostro viaggio verso Nord li abbiamo visti spesso. Però c’era sempre la sicurezza della macchina a separarci da loro. Il nostro obiettivo era raggiungere l’Alaska e in particolare il Magic Bus, il vecchio autobus in disuso in cui aveva vissuto e dove era morto Christopher McCandless (il viaggiatore statunitense, noto anche con lo pseudonimo di Alexander Supertramp, la cui vicenda è stata raccontata nel libro Into the Wild di Jon Krakauer e nell’omonimo film, ndr). L’ultima parte del viaggio, in Alaska fino al Magic Bus l’abbiamo fatta a piedi e sapevamo che c’era la possibilità di incontrare gli orsi. Avevamo con noi lo spray al peperoncino e dei fischietti per avvisarli della nostra presenza, ricordo che spesso fischiavamo. Fortunatamente in quell’occasione non li abbiamo incontrati».
Cosa ricorda di quei momenti faccia a faccia con l’orso?
«È l’incontro con il selvatico in tutta la sua forza. Per noi è ormai un evento molto raro perché le Alpi non sono più un territorio selvaggio. Fa un po’ paura confesso, perché è un animale davvero grande e a cui stare attenti, ancora di più se si tratta di una mamma con i cuccioli. Ma le stesse emozioni me le ha regalate anche l’incontro l’alce, un altro animale davvero enorme, a cui i nostri occhi non sono abituati. Se dovessi riassumere direi che meraviglia e paura sono i sentimenti che in generale mi ha dato non solo la vista dell’orso ma di tutta la wilderness che ho incontrato nelle terre selvagge. Ripeto: i nostri boschi adesso non sono così».
Sono passati due anni dal suo ultimo libro, La felicità del lupo, ora a cosa sta lavorando?
«Sto finendo il mio ultimo libro, è un lavoro che definirei in stile carveriano (Raymond Carver, ndr), uscirà nei prossimi mesi».
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