Il personaggio
sabato 15 Aprile, 2023
di Sara Alouani
Per il salto da produttore a rapper è bastato qualche gioco di voce, «così per provare», nello studio Plug Wave di Levico. Amir Moussa classe 1997, trentino di origine algerina, oltre ad aver fondato quella che potrebbe diventare la prima casa discografica della regione è un artista a tutto tondo. L’anima rossa, bianca e verde, i colori che ricordano il suo Paese, con il suo timbro graffiato nel suo ultimo singolo «Cartier» rimarca fieramente di essere «jazairi nel sangue». Amir, in arte Prestige, non solo ha la particolarità di rappare in lingue diverse, fra cui il francese e l’arabo che ha imparato tra le mura di casa, ma ha anche la capacità di toccare temi molto sensibili come il divorzio dei genitori e i sentimenti, anche l’amore, argomento che nel mondo del rap non ricorre spesso.
Amir, lei ha cominciato come produttore e non come rapper. Da dove partiamo?
«Nel 2018 mi sono appassionato alla musica con l’esordio della trap in Italia e ho voluto scoprire il mondo della produzione. All’epoca non mi piaceva la mia voce quindi ho puntato subito sul produrre musica piuttosto che cantarla. Ho iniziato amatorialmente, in casa poi, acquisita un po’ di fiducia ho aperto il mio canale Youtube dove caricavo i miei beat e ho cominciato ad interfacciarmi con rapper che si interessavano ai miei brani. Ho coprodotto e lavorato a progetti con artisti di tutta Italia da Milano a Roma ma anche trentini. Studiavo e contemporaneamente coltivavo questa attività come passione anche sognavo di diventare un produttore professionista e aprire un vero e proprio studio con il mood giusto. Così nel 2021 assieme a Davide e Filippo ho fondato la Plug Wave e come produttore spesso mi occupavo di seguire i rapper nella parte vocale, talvolta aiutandoli anche a chiudere strofe o ritornelli. Mi veniva naturale».
È qui che ha capito che poteva rappare?
«Esatto. Ho pensato che se potevo scrivere per i miei artisti potevo farlo anche per me stesso. Un giorno in studio, un po’ per gioco, ho provato a registrare delle battute con la mia voce ed è stata una bella sorpresa. Da quel momento mi sono allenato nella scrittura giorno dopo giorno, anche ascoltando altri cantanti per ispirarmi al meglio. Sapevo di avere molto da raccontare, ma per farlo bene e suscitare belle emozioni ci vuole molto impegno e dedizione».
Si ispira a qualche artista in particolare?
«Soolking senza dubbio. È algerino proprio come me e le sonorità dei suoi brani mi ricordano molto il mio paese. Riesce a riportare in vita il ‘Rai’ (musica pop tipica dell’Algeria) su basi trap e posso dire che è grazie a lui se mi sono avvicinato al rap. Soolking canta in francese e arabo e mi ha insegnato ad incastrare l’arabo e il francese con l’italiano nei miei pezzi. ‘Tata’ e ‘Dalida’ sono i brani che più mi hanno segnato».
Dice «mio Paese» riferendosi all’Algeria. L’Italia cosa è per lei?
«L’Italia per me è tutto. Mi ha cresciuto, mi ha istruito ma non vorrei essere quell’artista che dimentica le sue origini, a cui sono molto legato. Non riesco a fare distinzioni tra Italia e Algeria però forse sono emotivamente più attaccato all’Algeria perché le sono lontano e per 8 anni, a causa di problemi familiari, non ci sono potuto tornare. Ora almeno una volta ogni due anni vado a trovare i miei familiari a Costantina. Sono fiero di essere algerino, lo dico e lo mostro con orgoglio anche nelle mie canzoni».
Anche la calligrafia del suo nome d’arte ricorda quella araba, corretto?
«Sì, infatti la ‘I’ di Prestige è la ‘alif’, la prima lettera dell’alfabeto arabo che corrisponde alla ‘A’. Poi ci sono i puntini sopra le ‘E’ che ricordano lettere arabe. Ancora una volta questo per portare l’attenzione sulle mie origini, che non dimentico mai. La scelta del nome, invece, è un omaggio ai miei genitori che una volta gestivano un negozio Kebab che avevano chiamato Prestige El-Amir. Diciamo che ho dedicato loro il nome che un tempo avevano dedicato a me con la loro attività».
Nelle sue canzoni utilizza l’arabo e francese oltre all’italiano, certamente per rimarcare le lingue che fanno parte del suo essere algerino. È anche una scelta musicale la sua?
«Certo. Alcune rime e chiusure di frasi necessitano di parole in arabo o in francese, perché in italiano gli stessi vocaboli hanno una sonorità diversa che non si presta molto a completare determinate barre. Inoltre, alcuni termini risultano essere più di impatto se detti in arabo o francese. Poi, mi piace coinvolgere l’arabo nella musica perché vorrei che gli ascoltatori si appassionassero ad alcuni termini che già sono molto conosciuti come ‘khoia’, ’lebes’, ’walah’. Vorrei che gli italiani si avvicinassero alla nostra lingua e si sentissero coinvolti nelle canzoni».
Nel suo primo singolo «Cartier» sorprendentemente parla di sentimenti e non di malavita, droga, armi, temi che sono comunemente trattati nei brani rap. È un rapper anomalo in questo senso?
«Partiamo dal presupposto che io non ho mai fatto questo genere di vita e parlare di questi temi non rispecchierebbe chi sono. Mi piace raccontare quello che ho vissuto in prima persona e parlare di situazioni che mi hanno segnato come la separazione dei miei genitori quando ero piccolo. L’assenza di mio padre oggi mi fa guardare con molta diffidenza i rapporti interpersonali, anche quelli amorosi. È un po’ come se avessi vissuto un tradimento affettivo. Spesso cito mia mamma, perché lei ha saputo essere sia un padre che una madre per me e le mie sorelle. Lei mi ha insegnato i valori della vita e non mi ha fatto mai mancare nulla. Le sarò sempre riconoscente».