Il personaggio
venerdì 21 Aprile, 2023
di Anna Maria Eccli
Spirito da detective e ritmo del divulgatore: Maurizio Panizza la scrittura ce l’ha nel sangue e ha trovato un modo tutto suo di onorarla facendone l’importante vettore per un’indole curiosa e sensibile al contempo. Un anno fa aveva dato alle stampe la bellissima testimonianza biografica di Norma Cescotti Covelli, cui ha prestato penna e respiro in “96 anni di storia. La mia”, libro dalla scrittura elegante che, seguendo le vicissitudini della protagonista, permette al lettore di tuffarsi nelle atmosfere d’una Rovereto che non esiste più. Ora è pronto per una nuova pubblicazione, l’ottava, la biografia di un parente questa volta, don Giovanni Panizza, uno dei più importanti protagonisti della stagione cooperativistica trentina, di cui a luglio cadrà il centenario della morte. Giornalista pubblicista dal 1992, vicepresidente dell’Ordine, con un passato anche politico, Maurizio Panizza è soprattutto un appassionato del racconto, dell’indagine biografica, e la sua scrittura è un mix di ricostruzione oggettiva dei fatti e di mood sentimentale. Sa bene di non essere uno storico, lui non accetta di scomparire dietro alla trama delle storie che racconta, è un cronista capace di rintracciare l’irrintracciabile partendo da uno smozzico di documento. Archivi, fascicoli, biblioteche, emeroteche per lui non hanno segreti. Forse il libro che maggiormente rappresenta la sua vena da detective è “Trentino da raccontare. Cronache di fatti e personaggi da una terra di confine”, lì incontriamo gli occhi grandi e smarriti del piccolo Benito Albino, sfrontato come il padre, solo, supponente e sofferente ladro di caramelle, che il padre, Mussolini, farà morire in manicomio, come aveva fatto con la madre; lì il femminicidio di Italia Spagnolli, il 7 marzo 1910, nell’osteria in Via della Terra, o il doppio omicidio del preside del liceo di Rovereto e della nipote ad opera d’un ingenuo assassino che si fa pizzicare per i polsini trafugati dalla casa del preside; lì il ritratto di Gino Carlo Baroni, prete insignito della nomina di sottosegretario all’Edilizia da Jimmy Carter, o l’affondamento del Principessa Mafalda con a bordo parecchi trentini. Scrive con la semplicità del giornalista consumato, Panizza, col gusto del giallista, pattinando dal particolare al generale, come diceva Carlo Ginzburg a proposito di pagine che non saranno mai Storia, ma che hanno “la storia” dentro di sé. Si tuffa nel microcosmo di biografie curiose e sconosciute ai più, suggerendo coordinate temporali, cercando coincidenze e suggestioni, approfondendo aspetti sociali, inseguendo legami storici, difendendo soprattutto il valore dell’aneddotica o, per meglio dire, rivendicandone la magia. In qualche modo sospende il lettore tra teatro e verità e la cifra originale dei suoi libri è proprio quella di saper ricostruire contesti veritieri anche attorno a dati avari.
Signor Panizza, qual è stato il suo mestiere?
«Io nasco come maestro di scuola elementare, ho fatto supplenze ad Ala e a Sacco, ma poi ho partecipato a un concorso delle Poste e sono stato direttore di uffici postali per tutta la vita, a Nomi, Villa Lagarina, Mori»
La passione per il giornalismo l’ha portata a pensare la cronaca come scatola magica da cui estrarre psicologie, aspetti storici, sociologici. L’ha fatto anche in “Diario familiare”, del 2018.
«È vero, l’editore mi consegnò le scarne annotazioni private di Luigi Sartori, vissuto a cavallo tra ’800 e ‘900, ritrovate in una cassa a Roncogno in Valsugana assieme a quasi 300 lastre fotografiche della prima guerra mondiale. Da semplici note, del tipo “oggi mi sono sposato”, punto, ho tratto un racconto dei tempi, in cui trovano posto gli emigranti, il manicomio di Pergine, la bachicoltura…. Ho sviluppato un capitolo per ogni scarno riferimento dell’autore».
Le va bene la definizione di storico?
«Assolutamente no, non voglio usurpare un posto che non mi compete. Sono solo un giornalista che ama scrivere di cronaca, sono un giornalista appassionato di storia. I miei libri raccontano sempre di cronache del passato. Nel cassetto ho anche un romanzo finito già 6 anni fa. Sarebbe da riprendere, ma non ne ho voglia perché i personaggi sono inventati, mentre le storie che amo raccontare sono di persone veramente esistite. Qualcuno mi ha definito il detective della storia e questo mi è piaciuto. In effetti mi piace indagare, scovare, portare a galla».
Il suo debutto editoriale è avvenuto con “Eroe plebeo. Don Giovanni Battista Panizza”, un omaggio a un celebre parente a cui oggi sta tornando.
«Sì, con lui ho un rapporto d’affetto. Lo conosco piuttosto bene. Era il fratello del bisnonno, direttore delle Imperial Regie Poste del Trentino, che allora era Sud Tirolo. Un personaggio sottovalutato, ostracizzato, sbeffeggiato persino, perché di fede austroungarica. Don Guetti, giustamente, è considerato il padre della cooperazione e purtroppo morì giovane, a 51 anni. Ma la sua opera è stata davvero portata avanti da don Panizza, per vent’anni. Personalità diversa, molto esigente dal punto di vista della coerenza religiosa. Sto ultimando la sua biografia, che si intitolerà “Oltre l’oblio”, e con il regista Martin Alan Tranquillini, di Mori, stiamo preparando anche un docu-film. Non so se sarà pronto per il centenario della morte, il 5 luglio, ma di sicuro organizzeremo anche un convegno».
Di cosa si sente erede rispetto a don Panizza?
«Dell’interesse verso la collettività, sicuramente, e della coerenza, che fu anche di mio padre. Democristiano, quando votò in Consiglio comunale a favore di una mozione presentata dai socialisti perché la riteneva giusta, fu richiamato dal segretario del partito perché “Non si deve mai votare per l’avversario”. Rinunciò».
Praticamente da quando è in pensione dalle Poste è scrittore a tempo pieno.
«Sto davanti al pc per ore e ore, grazie a una famiglia, in particolare mia moglie, che mi comprende e sostiene. Però… questo non significa che rifugga dai compiti casalinghi. Nei ritagli di tempo lavo i piatti o passo l’aspirapolvere».
E cura in maniera certosina il suo sito web.
«Sì, mi piace, è un punto di riferimento per i lettori e io credo moltissimo nella divulgazione. Ho quasi 5 mila follower».
Un libro fuori dal suo genere è “Alla ricerca del sole”.
«Nato dall’esperienza con l’Unione italiana ciechi di Trento, dalla quale vado, una o due volte all’anno, per raccontare le mie storie. Un giorno mi mandarono la storia di Cristian Sighel di Baselga di Pinè che, a 20 anni, perse la vista a causa di un ascesso intracranico. Pensò di farla finita, ma una corsa podistica, legato con un cordino al polso dell’assistente, gli farà intravedere l’inizio della risalita. Adesso è un campione».
Ha diretto spettacoli teatrali e realizzato documentari.
«Due documentari, con Federico Maraner. Abbiamo ricostruito i bombardamenti su Rovereto e su Trento durante la Seconda Guerra Mondiale, con “Come uccelli d’argento” e “Occhi di Guerra” che è stato anche proiettato nel novembre scorso al Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli. A teatro, invece, hanno avuto un certo successo “Chiarina che morì due volte” e “Il sogno di Isidoro”».
Le resta anche il tempo per rilassarsi?
«Poco; da ragazzo ero appassionato di moto cross, qui al campo di Volano. Poi di moto sono sempre stato appassionato. Chiamo la mia Triumph, “fida Poderosa”, come faceva Che Guevara con la sua motocicletta».
Alla fine, cosa direbbe di sé?
«Che credo di avere messo a frutto i miei 67 anni, ragionando su come è il mondo, come sono le persone, sulle priorità del vivere. Che non sono l’esteriorità, o la ricchezza, ma il poter guardare a testa alta la gente e quello che hai fatto. È la coerenza di una vita, la vera priorità».
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