Primo maggio, il forum
domenica 30 Aprile, 2023
di Margherita Montanari
Si dice che viviamo nell’epoca di prospettive passate dal lungo termine all’immediato presente; del lavoro flessibile come forma culturale accettata dalle nuove generazioni; della ricerca del senso non solo attraverso il lavoro. Chi la materia la maneggia sia dal punto di vista teorico che dell’azione, come Riccardo Salomone, si tiene alla larga da letture facili e immediate. Giuslavorista, presidente dell’Agenzia del lavoro, alla vigilia del Primo maggio parla di lavori, e non di lavoro. In radicale rottura con il ciclo di lavoro flessibile che ha accompagnato il passaggio agli anni duemila, quello di oggi è un lavoro molteplice, non riconducibile a un’unità».
Nella ricostruzione teorica del mondo del lavoro, quali sono secondo lei tre grandi faglie nella storia contemporanea che hanno cambiato il modo di concepire il lavoro?
«Il lavoro è cambiato per tutto e si è costruita una complessità. Una complessità difficile da riportare a sistema, riportandola alle categorie in cui eravamo abituati a ragionare. Per me oggi il lavoro ha una molteplicità di problemi, ma anche di risposte, di policy con cui affrontarlo. Oggi parliamo di un lavoro molteplice. Una molteplicità di situazioni non riconducibili ad un uno. Il cambiamento è iniziato trent’anni fa. Con la crisi del capitalismo occidentale, che risale al passaggio tra gli anni ’90 e i primi duemila, alla rivoluzione del lavoro flessibile. Alla fine di questo periodo ci siamo accorti che il modello della flessibilità del mercato non ha dato risposte alle imprese e nemmeno ai lavoratori. Ma la vera grande svolta nella percezione del lavoro, e di come si vive, è arrivata con la pandemia».
In che modo è cambiata?
«I numeri delle dimissioni in Trentino negli ultimi anni sono impressionanti. Nel 2022, le pratiche gestite dall’Agenzia del lavoro sono aumentate del 20%, con 4.379 atti che riguardano persone che chiudono volontariamente un rapporto di lavoro in più in un anno (25.743 contro le 21.364 del 2021). Un incremento analogo si era visto dal 2020 al 2021. E lo stesso è accaduto in Italia, in Europa e negli Usa. Questo mi fa pensare che sia un cambiamento forte di come si percepisce il lavoro».
Che tipo di percorso prendono poi queste persone?
«Ci sono persone che lasciano il posto di lavoro e si rioccupano nei tre mesi successivi. Vuole dire che sono transizioni fisiologiche – lasciare un lavoro, pur buono – che prima della pandemia non c’erano o erano meno evidenti. L’idea di una costruzione di sé che dura una vita comincia ad essere smentita. Sono soggetti che principalmente si rioccupano poi negli stessi ambiti produttivi. Però ci sono anche transizioni da settore a settore. Anche questo è un cambiamento della dimensione del sé che prima non era così evidente. Circa la metà non si rioccupa (oltre 2 mila procedure). Scompaiono dai radar del mercato del lavoro locale. Significa o che fanno un lungo periodo di non lavoro, o che lasciano il lavoro dipendente, o escono dal Trentino».
Cosa spiega questo dato?
«Forse è presto per fare analisi profonde e sviluppare ragionamenti per accompagnare o correggere i problemi che questo crea. Ma forse è un segnale del venir meno del lavoro come priorità, come percorso unitario che ti accompagna per una vita. Qui dentro ci sono indubbiamente transizioni positive, segnali di crisi del lavoro come canale per emanciparsi e dare valore alla vita».
Le ripercussioni si vedono anche nel rapporto domanda-offerta?
«Le aziende non trovano – o dicono di non trovare – personale. Non dico che la mancanza di manodopera sia l’effetto di queste dimissioni e che basterebbe recuperare chi esce dai radar per risolvere il tema della mancanza di manodopera. Sono due problemi separati, ma diventati molto più netti dopo la pandemia. Legati probabilmente a un ciclo di vita economica, ma anche ad un cambiamento delle aspettative sociali legate al lavoro. Probabilmente non si guarda più solo a un tema di salario. Si ricercano condizioni e orari di lavoro più agevoli. Perché ci sono altri modi per vivere la vita. In questo, quindi, tanto dipenderà da quanto l’imprenditore riesce ad offrire. Ci saranno settori in cui bisognerà ancora ragionare di risorse umane, ma sarà sempre più importante costruire il rapporto con le persone che poi costituiscono le imprese».
Quali risposte si stanno pensando?
«Una delle proposte che si fanno avanti prevede la democratizzazione delle imprese e la demercificazione del lavoro. Trovare vie per coinvolgere i dipendenti e ridurre lo scollamento dei lavoratori attraverso un ripensamento del rapporto binario: imprenditore, da una parte, lavoratore, dall’alta. Cisl sta spingendo in questa direzione, ha scritto un manifesto sul tema».
Oggi i cambiamenti del mondo del lavoro tendono a manifestarsi in modo più carsico. C’è, almeno in apparenza, una conflittualità meno evidente. Questo complica la lettura dei fenomeni?
«Il numero dei conflitti legati al lavoro è calato drasticamente, se non quello che attiene i servizi pubblici, dove si tratta perlopiù di protezione di interessi, o settori in cui le condizioni umane di lavoro sono ancora critiche e nascono forme di sindacalismo autonomo. Questo porta meno chiarezza e fa parte della complessità dei lavori, che si traduce in difficoltà della rappresentanza e difficoltà dei canali sindacali a intercettare questa varietà. La moltiplicazione delle forme di occupazione e delle istanze non è facile da ricondurre a unità. Il risultato è la difficoltà di canalizzare le esigenze dentro a scenari di azione politica».
Si assiste a una commistione di persone con trattamenti economici, condizioni normative e retributive diverse.
«Anche la moltiplicazione dei trattamenti economici normativi è frutto delle scelte dei primi anni duemila. In quella stagione, tra i giuslavoristi c’è stato chi ha spinto per depotenziare il pubblico, e fare spazio al privato per fluidificare l’incontro domanda-offerta. Catene di appalti, esternalizzazioni, somministrazioni si pensava avrebbero reso più flessibile il meccanismo con cui un’impresa sta nel mercato. In una fase come quella odierna, però, le agenzie di somministrazione non sono in grado di intercettare il futuro e risolvere la carenza di lavoratori. L’idea era allentare le rigidità; si è invece complicato il contesto di lavoro».
In questo quadro, quali sono i soggetti che diventano più vulnerabili?
«Senz’altro c’è la questione giovani, che ormai inizierei a guardare in ottica di generazioni. Nel gruppo dei considerati giovani, che arriva ai 40 anni, si trovano esigenze generazionali diverse, frutto di percorsi di vita differenti e modalità diverse di guardare il mondo. Il tema del riconoscimento professionale tra i 20 e i 40 anni (non solo economico) è più o meno inesistente. Anche perché abbiamo costruito tutte le regole del lavoro con l’idea di togliere ai giovani in quanto giovani. Questa idea va ribaltata. Se fossi un politico, direi che dobbiamo dare qualcosa in più alle generazioni più giovani».
A fronte di sfide epocali come la globalizzazione, la delocalizzazione, l’automazione e l’industria 4.0, è emerso un problema di formazione. In che modo va posto per avere risorse utili al mercato del lavoro?
«Il primo tema è combattere la povertà educativa, con più educazione e percorsi di specializzazione. Non sto dicendo che serve una formazione iperspecializzata, più adatta ai bisogni dell’impresa. Perché i bisogni di oggi non sono quelli di domani. Sarei più per puntare sulla qualificazione della formazione a tutti i livelli, che renda in grado di vivere i cambiamenti epocali».
Intelligenza artificiale e nuove tecnologie hanno sottratto lavoro?
«I dati mostrano che ciò non è avvenuto, anche se c’è stato più un riposizionamento».
Il Trentino, con l’Agenzia del Lavoro, è stato il primo territorio in Italia a creare uno strumento che si occupasse in modo organico delle tematiche del mercato del lavoro. È ancora una leva importante?
«L’Agenzia del Lavoro resta un unicum nel panorama nazionale. Per le caratteristiche che ha nella gestione delle politiche del lavoro è vista come una risorsa preziosa. Ma forse sta attraversando una fase anti-autonomistica. Tra centralismo, europeismo e boom di agenzie private che si occupano di lavoro, ha perso un po’ la spinta e la forza che aveva. Il suo ruolo potrebbe essere rivitalizzato, pensandola come cerniera tra mondo del sindacato e mondo delle imprese».
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