L'editoriale
lunedì 1 Maggio, 2023
di Simone Casalini
Il lavoro è stato per decenni il centro di gravità da cui discendeva più o meno tutto. Sul piano individuale si legava alla realizzazione o meno di una vita, alla dignità, alla soddisfazione di ambizioni, passioni e sensibilità, alla costruzione di un’identità politica. Sul piano collettivo il lavoro misurava lo stato di salute della società, i suoi rapporti di forza, i conflitti, le utopie. Le rivoluzioni (attese e disattese) hanno sempre avuto nell’economia e nel lavoro le dimensioni chiave della svolta. Buona parte della filosofia del Novecento – soprattutto a sinistra – osservava nei processi produttivi e nella modulazione del lavoro la genesi di nuovi progetti politici e antropologici.
Il cinema, in pari misura, ha seguito questo tema di analisi della società. In “Tempi moderni” (1936) il grande Chaplin si sofferma sull’organizzazione della fabbrica e racconta le amare vicende della condizione operaia. Il meccanismo produttivo, l’alienazione del lavoratore, proseguono come filone d’indagine negli anni Sessanta e Settanta. In “Accattone” (1961) di Pierpaolo Pasolini, il protagonista, un sottoproletario romano, dopo una giornata di lavoro – forse la prima della sua vita – si butta a terra come un sacco di patate ed esclama che gli sembra di essere a Buchenwald. Il lavoro disciplinato come nei campi di concentramento. Elio Petri con “La classe operaia va in paradiso” (1971) ha al centro il rapporto uomo-macchina, la performance finalizzata ad un compenso da spendere nel consumo al termine del quale non rimane nulla. Sono numerose le pellicole che sviluppano lo stesso filone.
La settima arte ha raddrizzato il periscopio negli anni Ottanta. Concluso il ciclo del capitalismo fordista, si affacciavano la finanza e la scomposizione della proprietà. “Wall Street” (1987) di Oliver Stone è un assaggio di una prosopopea che trova declinazioni nella commedia e nella drammaturgia. Dalla parte dei lavoratori umili, il cineasta britannico Ken Loach è quello che ha accompagnato le trasformazioni del lavoro e la perdita di coscienza collettiva, o di categoria. Da “Riff-Raff” (1991) a “Sorry We Missed You” (2019) – dove ha rappresentato la vita di un corriere che consegna pacchi – è stato un testimone indiretto della dissolvenza del lavoro, pur avendo i suoi film la finalità di riaffermarlo. Ne “I lunedì al sole” (2002) Fernando Léon de Aranoa affrontava, invece, la crisi dei cantieri navali di Vigo, in Spagna, e lo sfarinamento di un gruppo di disoccupati. La fine di un’epoca e di un modello molto materiale, e dunque tangibile.
In tempi più recenti i film dedicati al lavoro si sono rarefatti. Qualcuno si rifà a storie e ambientazioni del passato come se ci fosse l’impossibilità di estrarre dalla realtà l’apice di un filo con cui costruire una nuova storia rappresentativa. Salvo episodi sporadici legati a singoli fenomeni, il lavoro non suscita più interesse. Ad essere onesti non si osservano più nemmeno manifestazioni significative. La massa si è dispersa in mille rivoli. La fabbrica, che è stata il grande luogo dell’ambivalenza tra emancipazione e sfruttamento, non ha più un peso specifico.
Se il mondo del lavoro fosse un quadro avrebbe protagonisti, colori e paesaggi completamenti diversi. Persino la precarietà, che è stata l’ultima contrapposizione politica per garantire – si diceva – dinamismo al sistema, è caduta in disgrazia. La flessibilità? Pure. Poi, certamente, nella minore conflittualità o interesse si può intravedere anche un miglioramento, in alcuni casi, di situazioni pregresse. Ma non è la ragione del cambiamento.
Il lavoro è diventato molteplice e così la sua organizzazione. Difficile da rappresentare, nelle sue istanze talvolta effimere, dai sindacati. E poi si afferma una nuova cultura che – spiega bene il giuslavorista Riccardo Salomone, presidente dell’Agenzia del Lavoro – non valuta più il lavoro come il crocevia in cui si decide il destino di una vita. Diventa una variabile.
Sarebbe importante, invece, che di lavoro e impresa si parlasse con più cognizione e continuità, che si favorissero quei percorsi rimasti inerti (l’occupazione femminile e giovanile in primis), che si riprendesse in mano la tela della rappresentazione e che si costruissero percorsi dove valorizzare elementi storicamente in conflitto. Ri-umanizzare il lavoro, riaffermarlo attraverso le sue biografie, nuovi concetti e organizzazioni, è anche un modo per fare sì che non resti solo un elemento di sottrazione in un mondo che cambia. Perché per quanto destrutturato o assopito, rimane un tema spesso essenziale della vita da dove transitano marginalità e centralità, innovazioni e sopravvivenze, culture e disvalori.
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