L'editoriale
lunedì 8 Maggio, 2023
di Simone Casalini
La libertà è diventata nel tempo un termine generico. Per non dire vuoto. Che significa? Soprattutto in un mondo occidentale – sebbene con le sue essenziali e vitali deviazioni culturali – dove non esistono limiti né alla realizzazione di sé né agli obiettivi di un potere, genericamente inteso. Senza una cultura e dei valori che indirizzano la libertà e la “moralizzano”, ogni scelta è più o meno possibile. Un dolore inflitto, un dovere non assolto, una sensibilità ignorata, una nomina politica sbagliata, un’intervista addomesticata, un processo occultato nella sua verità dei fatti, una richiesta di essere consenziente. La libertà ha come presupposto l’autonomia. Non essere assoldabili nemmeno quando si pensa di condividere un patrimonio ideale.
A volte libertà è anche prendersi gioco della vita, raggirarla. Come faceva Bohumil Hrabal, il grande scrittore praghese che nel regno dell’illibertà (la Cecoslovacchia comunista) ha costruito un linguaggio e assottigliato una parola capace di sbaragliare ogni opposizione. Nei suoi commoventi romanzi – “Ho servito il re d’Inghilterra” o “Treni strettamente sorvegliati”, per riferirne due – rendeva protagonista la marginalità dell’esistenza con un tratto surreale unico. “Sono istruito contro la mia volontà” diceva di sé. Scriveva in birreria dove assumeva i discorsi degli astanti e dava loro dignità di racconto. Un racconto di popolo, e non di potere. Quindi improntato ad una possibile verità. È morto come è nato, e in questo non c’è un merito. Ma è una prerogativa di pochi.
L’esempio di Hrabal è utile perché ci spinge a contrastare le finzioni e a svelare le servitù. I poteri, e lo siamo noi per primi, non hanno solo un compito di indirizzo ma anche di rendere chiare le posizioni e i processi decisionali. Dove talvolta le pudiche voci dell’etica sono quelle meno trasparenti, più smaliziate nella gestione delle proprie prerogative e più sensibili ai richiami del ruolo. Il ruolo – nel lavoro, in famiglia, in amicizia, nel gioco, nel discorso – non è mai in funzione di sé stessi. Non è, cioè, un privilegio che garantisce una serie di fortune, di accessi a cose che pochi possono avere. Il ruolo può essere speso e giocato solo per gli altri: una comunità, una figlia, un amico, una squadra, una parola.
Di alcune partite molto rilevanti – di nomine, di progetti, di visioni – è ciò che preoccupa anche in Trentino e a Trento. Che la libertà rischi di essere servitù mascherata e non faccia un servizio alla collettività ma a qualche portatore di interessi. La libertà, anche quella che a volte ci colpisce o ci limita o ci esclude, è l’unico ingranaggio del sistema che garantisce la costruzione di nuovi modelli di convivenza. Nell’impresa – per la quale la libertà è sempre stata un presupposto tanto da essere disseminata in ogni concetto (libera impresa, libero mercato, eccetera) -, nella vita sociale, nella cultura, nel discorso pubblico. Ci sono poteri che sono più liberi di microportatori di interessi e che falsificano qualsiasi credenza comune.
Paradossalmente oggi è più complesso essere liberi. Perché viviamo in una società molecolare, ognuno spinge per sé. La libertà è solo individuale. Tante minuscole libertà individuali non generano una libertà assoluta. E nemmeno verità condivisa.
La delicatezza della libertà è ancora più palpabile nel mondo dell’informazione. Lo ha spiegato bene la reporter di guerra (termine riduttivo) Francesca Mannocchi nel suo incontro pubblico a Bolzano. Muoversi all’interno di un conflitto non significa fare ciò che si vuole, ma rispettare una serie di regole e garantirsi che i propri collaboratori abbiano gli stessi diritti. Spingersi nella prossimità di un ponte presidiato da cecchini russi, in Ucraina, o avventurarsi in una porzione di territorio non sminato non significa inseguire una libertà più grande. Ma essere degli sprovveduti che mettono a rischio sé stessi e gli altri. Mannocchi ha un enorme consenso per il lavoro che svolge, ma non ha mai avuto bisogno né di urlare allo scoop né di scendere a patti. Anche qui c’è una caratteristica della libertà: tra chi strilla e chi si (auto)addomestica spesso non c’è differenza.
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