Il personaggio
giovedì 11 Maggio, 2023
di Benedetta Centin
Danila Angeli in passato e in più occasioni aveva chiesto alla sua città d’origine, Trento, di installare una lapide o una targa per ricordare suo figlio Fausto Tinelli ucciso con l’amico Lorenzo «Iaio» Iannucci, di rientro a casa a piedi a Milano, il 18 marzo 1978. Due studenti diciottenni e militanti del centro sociale Leoncavallo presi a pistolettate in strada. A due giorni dal rapimento di Aldo Moro da parte di un commando delle Brigate Rosse che aveva massacrato gli uomini della sua scorta. «Non ho mai ottenuto risposta alle mie richieste. Ammetto che proprio perché, a differenza di Milano, non è mai stato fatto niente per mio figlio e il suo amico vittime di terrorismo, ero arrabbiata con Trento, la mia città ma anche quella di Fausto, dove era nato (il 25 novembre 1959) e dove tornava spesso, dai miei parenti, e dove ho deciso di seppellirlo» fa sapere la pensionata, da tempo residente a Milano. Due giorni fa, quando è tornata a Trento dove mancava da prima del covid, il rancore ha lasciato spazio al sorriso. «Martedì, all’inaugurazione del murale con Fausto e Iaio realizzato sul muro del liceo Da Vinci mi è sembrato un sogno, sono stata davvero felice — ammette la donna — È accaduto dopo 45 anni e quasi non ci credevo. Ringrazio per l’iniziativa professori e studenti in cui ho rivisto mio figlio e anche il sindaco Franco Ianeselli, persona umana, e Trento, diventata finalmente di nuovo la mia città».
Sono passati 45 anni dal duplice omicidio e non si è arrivati a una verità, a un processo..
«Nel 2000 ho ricevuto la notifica dell’archiviazione dell’inchiesta: un pezzo di carta con i nomi dei tre sospettati in cui si riportava che non c’erano prove a loro carico. («Pur in presenza dei significativi elementi indiziari a carico della destra eversiva e degli indagati… » riportava il decreto ndr). Ma per me di prove ce n’erano fin troppe, perché non raccoglierle allora? Ricordo il mio stato d’animo: andai in piazza per stendere un lenzuolo con la scritta no all’archiviazione».
Crede ancora si possa arrivare a qualcosa? Ad avere risposte?
«Mio figlio Bruno vorrebbe fosse riaperto il caso ma sono convinta che non verrà fuori nulla nemmeno tra cento anni. Io non credo più nella giustizia, io non l’ho avuta. La mia fiducia è sotto le scarpe. Il tribunale non lo chiamo palazzo di giustizia, non esiste la giustizia, almeno non per tutti, ed è di serie a, b, c..».
Eppure ha combattuto tanti anni per avere verità e giustizia.
«Mi sono data da fare come una matta, assieme al mio avvocato, a sua volta preso di mira con minacce. Come lo sono stata io che negli anni ho dovuto subire anche una serie di angherie. Sono stata seguita, controllata, ho ricevuto telefonate inquietanti.. Ma sono andata avanti comunque: ho tentato ogni strada pur di arrivare alla verità, ho chiesto di parlare con i giudici che hanno trattato il caso ma chi ha indagato sulla morte di mio figlio e del suo amico è stato ammazzato o trasferito: tre le persone morte, tra cui un giudice e un cronista. Sono convinta che sia stato tutto insabbiato, che sia stato fatto sparire materiale. Avevo inviato anche molti fogli al Parlamento ma la politica è stata assente e ha fatto finta di niente».
Quindi non spera più? Non si batterà più?
«Io e il mio avvocato ne siamo coscienti: andare avanti è confrontarsi con un muro di gomma. Questa la sensazione. Più si spinge in avanti più il muro ti spinge indietro».
Qual è la sua verità? A che conclusione è arrivata?
«Dopo l’omicidio furono diverse le versioni, dal regolamento di conti nell’ambito della malavita o della droga, agli scontri tra destra e sinistra. Tutte ipotesi che si sono dovuti rimangiare. La verità è che sono stati ammazzati due ragazzi innocenti. Fausto era una persona onesta, così come l’altro ragazzo. Mio figlio era apolitico come me, studente brillante al liceo artistico, sempre con un libro al seguito, sognava di iscriversi all’università, a Filosofia, non fumava, non beveva, odiava la droga tanto che sensibilizzava gli altri a non assumerla».
Non sembra essere stato ammazzato a caso, no?
«Chi lo ha ammazzato cercava lui, sì: una testimone ha sentito il killer chiedergli: “Ti chiami Fausto?”, poi ha tirato fuori la pistola scaricandogli contro otto colpi. Hanno scelto lui, l’amico non so. Un omicidio secondo me legato ad Aldo Moro».
Tre gli uomini dell’agguato..
«Erano arrivati da Roma a Milano su commissione: da quello che so tre sicari mandati dai servizi segreti che allora abitavano sopra casa mia perché controllavano le Brigate rosse per la morte di Moro. Brigate rosse che avevano un covo proprio di fronte alla mia abitazione, dove vennero rinvenuti i memoriali del presidente della Democrazia cristiana. Forse Fausto dalla finestra della sua camera aveva visto qualcosa che non doveva o aveva saputo.. Non avremo mai certezza. Di sicuro quando è stato soccorso dal parroco in strada, sanguinante, cercava me, diceva “mamma”».
L'INTERVISTA
di Anna Maria Eccli
Violoncellista, sposata con un principe africano, gira il mondo per lavoro. Nella città della Quercia ha deciso di comperare un rifugio dalla vita frenetica parigina. Proprio accanto alla residenza per cui i suoi avi si indebitarono