Il ricordo

mercoledì 19 Luglio, 2023

Stava, il cronista Rai e l’eterna tragedia. «Ci sono morti?». «Tanti». «Quanti?». «Almeno 300»

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Il racconto di Alberto Folgheraiter. Alle 12.23 del 19 luglio 1985 crollarono due invasi della miniera Prestavel. «Entrai in una pasticceria. Una signora piangeva»

Più che la memoria della strage, l’oblio sprofondato nel fango. Questa fu, per noi vecchi cronisti, la sciagurata estate del 1985. Che la cronaca ha consegnato alla storia anche se l’onda assassina, negli anni, si prolungò ben oltre quelle 268 morti immediate di Stava. Si dilungò nei lutti a catena di chi non riuscì a superare l’angoscia, continuò a macerarsi nel pianto, a non trovare ragioni possibili dentro una sciagura che fu definita tragedia. Che si poteva e si doveva evitare. Certo, una spiegazione la diedero le perizie e le inchieste dei magistrati. E pure le puntuali ricerche di chi, prestato alla penna, si prodigò per anni a rovistare tra carte, concessioni e progetti di una discarica cresciuta oltre il consentito e crollata per colpe e omissioni.
Era il 19 luglio, un venerdì, l’ora del desinare nelle abitazioni di montagna, in quella valle lunga e stretta che, risalendo il rio Stava, lambiva l’abitato di Tesero e si allargava ad anfiteatro poco oltre la cappella della Palanca.
Le valli di Fiemme e di Fassa vivevano l’apice del turismo d’estate, con l’ultimo giorno di vacanza per chi soggiornava un paio settimane negli alberghi di Stava (Erika, Miramonti e Stava). Un giorno come altri per chi passava la stagione nelle case cresciute assieme ai terrapieni, dirimpetto alla miniera di fluorite a Prestavèl. Dapprima spuntò una sorta di catino di decantazione del minerale estratto dalla montagna, poi su, su come un vulcano che con gli anni cresceva ad anelli, alimentato dall’andirivieni degli scarichi di scarti.

I terrapieni e l’Ufficio minerario
Poi, quando anche il terrapieno fu sufficientemente bastevole, se ne cominciò un secondo, poco sopra, sul pendio della valle. L’uno sull’altro: giganteschi e sproporzionati, a vederne le immagini in bianco e nero, se rapportati a una casetta bianca poco discosta dalla base del primo.
A Trento pochi sapevano di quei manufatti. All’ufficio minerario della Regione, prima, della Provincia, poi, erano arrivate negli anni richieste di ampliamento e di reiterate concessioni. Anche qualche protesta, in verità, da persone di Tesero che lamentavano odori e rigagnoli che fuoriuscivano dal terrapieno inferiore. E che paventavano pericoli per l’abitato sottostante.
Il crollo alle 12.23
C’erano stati sopralluoghi, finiti, sovente, in trattoria. Quando quei terrapieni crollarono, alle 12.23 di quel venerdì sciagurato, gli uffici della Provincia erano deserti. A mezzogiorno era scattato il coprifuoco del fine settimana. Il presidente della Giunta provinciale, Flavio Mengoni (1929-2013), era a Roma per incontri nei ministeri. Ai telefoni della Provincia, cominciati a trillare verso mezzogiorno e mezzo, rispose, allucinato, un portiere il quale non sapeva che santi pigliare.
Alla Rai, mentre lo speaker di turno usciva dallo studio e la sigla di coda del «Giornale radio regionale» era ancora in onda, il tecnico di regia alzò la cornetta e richiamò il giornalista. Dall’altro capo, un angosciato Tarcisio Gilmozzi, «parón» di Radio Fiemme: «Corri su che è vegnù giù la diga de Stava». Ci sono vittime? «’Na marèa».

Una signora: «Ci sono trecento morti»
Una telefonata in redazione («Mandatemi dietro una troupe, ci sono dei morti») e via a rotta di collo. Lungo i tornanti, da Ora verso Cavalese, la «Regata» si accodò alla lunga fila di camion dei vigili del fuoco che da Trento e Bolzano e altre località correvano verso l’abisso. Al ponte di Tesero il cronista fermò la vettura col motore acceso. Prese il «Nagra», il pesante registratore professionale in dotazione alla Rai, si precipitò oltre il posto di blocco. Di là dal ponte c’era una pasticceria con i vetri frantumati dall’onda d’urto della colata di fango che si era scaricata lungo tutta la valle di Stava. «Ci sono dei morti?» domandò trafelato alla signora che piangeva sulla porta del locale. «Tanti». «Quanti?». «Almeno trecento».
Con quel frammento di registrazione, nel fragore degli elicotteri che roteavano sopra la valle, il giornalista si attaccò al telefono della pasticceria e chiamò Roma. Il GR2 delle 13.30 volgeva a conclusione. Dallo studio gli fu data la linea e, con un groppo che strozzava la gola, riuscì a dire: «Trecento morti, una diga crollata, una valle distrutta. Ecco una prima registrazione…».
Quando restituì la linea a Roma, cominciò a tremare. Trecento morti: ma non era stato troppo impulsivo a dare quella cifra? C’era solo la dichiarazione di una signora. Nei titoli del GR2 avevano parlato di qualche disperso. Domandò conferme. Il marito della donna fece un rapido calcolo: tre alberghi polverizzati, una ventina di abitazioni spazzate via come fuscelli, un pullman di turisti (che poi si scoprì aveva lasciato Stava da pochi minuti): quella somma poteva essere per difetto.

Alla fine 268 vittime
Alla fine, dopo giorni di affannose ricerche e decine di controlli incrociati, il numero dei morti di Stava si fermò a 268. Per proseguire, sotto altra forma, negli anni a seguire. Tre anni dopo, i morti di Stava furono rievocati da Papa Woytjla (1920-2005), arrivato a Tesero dal santuario altoatesino di Pietralba. Era il 17 luglio 1988. Parlò di scempio della mano dell’uomo, di una natura che non può essere sottomessa al dominio del profitto.

Dieci condannati e il risarcimento
La Provincia di Trento, la Prealpi Mineraria (titolare dell’impianto di Prestavèl), la Montecatini, avevano già cominciato a pagare indennizzi e rimborsi ai familiari delle vittime: 132 milioni di euro per 739 danneggiati. I quattro processi che seguirono si conclusero nel 1992 confermando le condanne di primo grado (8 luglio 1988) per disastro colposo e omicidio colposo plurimo. Nessuno dei dieci dichiarati colpevoli ha scontato la pena in carcere. Se i morti di Stava hanno un prezzo, il Trentino quel giorno perse la sua innocenza. E non l’ha più ritrovata.