l'intervista

domenica 6 Novembre, 2022

Il Pojana e la gavetta fra colto e popolare: «Da Shakespeare al dialetto, racconto storie e svelo umanità»

di

L’attore, regista e drammaturgo in tour a Trento con il suo ultimo spettacolo ripercorre l'inizio della sua carriera e il legame con le storie. «Per me è un bisogno. Il dialetto ha potenzialità enormi»

Narrare i grandi temi della contemporaneità partendo dalle proprie radici personali e culturali. E farlo abbracciando sia il grande teatro tradizionale, sia il teatro locale veneto a forte impronta satirica, creando un prodotto universale di successo. Si potrebbe riassumere così la mission artistica di Andrea Pennacchi – attore, regista, colto drammaturgo e volto noto del piccolo e grande schermo – che sarà protagonista di un doppio appuntamento all’Auditorium S. Chiara di Trento: domani alle 20.30 con Pojana e i suoi fratelli, spettacolo ironico e graffiante con protagonista il personaggio divenuto di culto grazie agli interventi televisivi a Propaganda Live, e martedì in matinée alle 10.00 con Una piccola Odissea, versione a più voci, con accompagnamento musicale dal vivo, del racconto di Omero che inaugurerà la rassegna Scappo a teatro, dedicata alle scuole.
Andrea Pennacchi, lei vanta una lunga carriera: dopo anni di teatro, nel 2007 ha esordito nel mondo del cinema e, dal 2018, la sua carriera è decollata come personaggio televisivo grazie al personaggio «Pojana». Qual è il filo rosso che tiene insieme i volti del suo prisma artistico?
«Mi piace molto la figura del prisma. E la risposta a questa domanda mi viene molto semplice: faccio l’attore e sono cresciuto artisticamente facendo la classica gavetta e ne vado fiero. Ho recitato in scuole, teatri, biblioteche: dovunque ci fosse uno spazio e del pubblico ho fatto spettacolo e credo che il filo rosso sia l’amore per le storie e la voglia di continuare a raccontarle, che oltre a un desiderio è una necessità. Naturalmente poi, a seconda del mezzo con cui si raccontano, è necessario cambiare tecnicamente qualcosa, ma il nucleo centrale non cambia».
Sul palcoscenico riesce a far confluire il grande teatro tradizionale, con Shakespeare suo grande ispiratore, e una tradizione locale a forte impronta satirica: un mix efficace che riesce nell’intento di portare la sua regione, il Veneto, al di fuori dei suoi confini, sfruttando anche il suono e le possibilità semantiche del suo dialetto.
«Il dialetto ha potenzialità enormi, anche se siamo poco abituati a usarlo in teatro. Sono felice di uscire dalla mia regione con questa tipologia di teatro in cui il dialetto viene usato in maniera espressiva non solo come “colore”, diventando macchietta, ma soprattutto come sostanza. A ben vedere, sono proprio le radici profonde e la capacità di espressione che permettono alle storie narrate di diventare universali. Per quanto riguarda l’incontro tra i generi, ho appena scritto un libro intitolato “Shakespeare and me” in cui racconto che, prima di andare all’università, ero andato a teatro due volte e mi ero annoiato un sacco. Poi ho incontrato un professore che mi ha fatto comprendere a fondo l’autore e, vedendolo successivamente portato in scena da attori straordinari, ho capito quanto sia un classico senza tempo, eterno. Provo quindi, sempre, a portare un po’ di Shakespeare con me cercando di trasferire la sua potenzialità poetica anche nella satira che propongo: una satira che non vuole solamente colpire, bensì veicolare un messaggio di più ampio respiro, in grado di affrontare temi fondamentali per l’umanità».
Una caratteristica cardinale di molti suoi lavori è saper raccontare, partendo dalle sue radici e dalla quotidianità, temi di grande attualità che finiscono per diventare universali. Ci spiega questo rapporto tra l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande?
«A tal proposito mi piace citare un grande poeta come Giorgio Caproni: il poeta deve scavare dentro di sé fino a quando non trova quel fondo in grado di connetterlo agli altri esseri umani. Anche io, anche se non so fino a che punto posso definirmi poeta, provo a fare lo stesso: scavo dentro di me ritrovando il mio quartiere, gli amici di un tempo con cui giocavo da ragazzo e tutte le cose che ho vissuto, riscoprendo in esse una mia comunità. Il microcosmo che si rispecchia nel macrocosmo, tra l’altro, è un tema propriamente shakespeariano».
Uno dei due appuntamenti che la vedranno protagonista a Trento, «Una piccola Odissea», inaugurerà il cartellone dedicato al mondo delle scuole, con le quali nel corso della sua carriera ha lavorato molto. A suo avviso, quale ruolo può avere il teatro nell’ottica di instaurare un dialogo con le nuove generazioni?
«Un ruolo importante: il teatro è uno strumento che aiuta ad incontrarsi e ad approfondire le cose, scoprendole attraverso un dibattito che non ha nulla a che vedere con quello dei social, dove spesso è impossibile discutere senza incappare in malintesi. Non voglio fare assolutamente retorica, però credo che le persone che fanno bene i laboratori nelle scuole dovrebbero essere pagati come gli attori del cinema. Esse compiono un’azione fondamentale: aiutano i ragazzi a indagare sé stessi, a scoprire le loro passioni, ad esprimersi e a mettersi nei panni degli altri. Personalmente, anche se è da un po’ di tempo che non lavoro nelle scuole, posso dire che i ragazzi di oggi sono molto interessati e assolutamente non apatici e che ci sarebbero tantissime tematiche da approfondire, sviluppando nuovi laboratori su temi quali l’identità, il genere e magari anche l’approccio alla politica».
Il teatro è per definizione territorio in cui il dialogo assume un ruolo fondamentale e dove l’ascolto dell’altro diventa fattore imprescindibile. Considera questa forma d’arte uno strumento di educazione civica?
«Il teatro, se messo nelle mani giuste, da questo punto di vista è una delle forme artistiche più raffinate. In senso lato, esso nasce come strumento di educazione civica: non dal punto di vista scolastico ma come terapia per la comunità, dal momento che ci porta a riflettere sui grandi temi e sui traumi che diventano di conseguenza condivisi. Esso porta le persone a mettersi in gioco, sperimentando sul palcoscenico cose che normalmente non si farebbero: ci mette nella condizione di indossare le varie maschere che potrebbero essere le nostre sfaccettature nella società, spingendoci ad analizzarle e permettendoci di indagare e conoscere quello che noi tutti potremmo essere».