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martedì 1 Agosto, 2023

Crisi climatica, l’analisi (amara) di Mezzalama: «Paghiamo l’inazione politica»

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Lo scienziato ambientale piemontese domani in Valsugana per l’agosto degasperiano cita Canada e Danimarca come Paesi a cui l’Italia dovrebbe ispirarsi

L’agosto degasperiano riflette su come «Ripensare l’ambiente». Negli spazi di Malga Costa, ad Arte Sella, in Valsugana, domani (alle 17) l’antropologo Marco Aime e lo scienziato ambientale Roberto Mezzalama daranno vita a un dialogo severo ma propositivo su un tema impossibile da ignorare: l’impatto dell’essere umano sulla salute del pianeta.
Mezzalama, lei è laureato in Scienze naturali, con master in ingegneria ambientale. Marco Aime è un noto antropologo. Cosa unisce nell’evento in programma domani ad Arte Sella per l’Agosto Degasperiano due figure apparentemente così diverse?
«I due approcci non sono poi così diversi e hanno bisogno l’uno dell’altro. Il tema dei cambiamenti climatici e della transizione ecologica parte da basi scientifiche ma interessa i comportamenti e i risvolti sociali, la trasformazione di una società, compresi i meccanismi antropologici. Solo con i dati della scienza non si va da nessuna parte».
Il tema scelto quest’anno per l’Agosto Degasperiano sono le inquietudini che attraversano la nostra società. Quanto siamo inquieti sul fronte del clima?
«I fenomeni climatici estremi, che vediamo di continuo – pensiamo ai nubifragi violentissimi su Lombardia, Veneto e Friuli della scorsa settimana, come le temperature oltre i 45 gradi in Sicilia – aumentano di intensità e frequenza e questo deve inquietarci. Si tratta anche di una questione generazionale. I giovani sono più sensibili. Io ho tre figli, e due di loro sono attivisti per il clima. I ragazzi sanno che il futuro ambientale non è più quello di una volta. Sono i primi ad aver capito che ci vogliono interventi radicali sugli stili di vita, mentre qui si va avanti a pannicelli caldi, quando va bene. C’è una evidente sproporzione tra la gravità della situazione, il giusto allarme e le soluzioni messe in campo per mitigare il cambiamento climatico».
Non ci sono proprio aspetti positivi nel cambiamento climatico? Ad esempio, nuove zone rese abitabili grazie allo scioglimento dei ghiacci…
«Ho studiato l’Artico e il Permafrost. Dico soltanto che si crea una fanghiglia inospitale, si ritirano le coste, muoiono i pesci, si rilasciano quantità di metano che accelerano l’effetto serra. Non direi».
Per il suo libro del 2021 sul clima che cambia l’Italia, ha fatto un Grand Tour ambientale nella nostra penisola. Cos’ha trovato?
«Tanta consapevolezza. Per fortuna. Parallelismi e stessa preoccupazione tra i pescatori di Chioggia come tra le guide alpine di Courmayeur, che sanno che il futuro del loro lavoro è a rischio e che vedono gli effetti del surriscaldamento globale meglio di altri. Ho incontrato anche i forestali della Magnifica Comunità di Fiemme dopo la tempesta Vaia, la famiglia Lunelli del Trentodoc. In Trentino si coltiva la vite ormai fino a 900 metri. In Piemonte i produttori di Barolo stanno comprando terreni in Alta Langa. E chi va in montagna sa che oggi i crolli sono molto frequenti: la tragedia della Marmolada del luglio 2022 ne è un esempio».
Perché il cambiamento climatico è ancora così poco presente nelle agende politiche globali e locali?
«Diciamo che l’essere umano non è geneticamente programmato per pensare al futuro, per preoccuparsi del domani. Vive generalmente nella contingenza. Sto facendo una riflessione antropologica… Ho vissuto e lavorato in Canada e lì c’è molta più coscienza del problema, ci si fida di più, non si cercano giustificazioni».
Ci vorrebbe un po’ di entusiasmo per rendere appetibili i cambiamenti di stile di vita per salvare il pianeta? Siamo troppo disillusi, distratti?
«Direi che l’atteggiamento prevalente è il cinismo. Poi c’è il disincanto e anche la frustrazione. Dato che si fa poco, molti si giustificano dicendo che ormai è tardi, tanto vale vivere come sempre, all’insegna dei consumi, degli sprechi, dell’inquinamento».
Ma una buona politica cosa può fare?
«Ci vorrebbe un De Gasperi. Per prima cosa, la politica non deve raccontare balle. Facciamo una moratoria sui temi climatici, sul riscaldamento globale: basta polemiche e divisioni. Serve una zona franca per non dividersi e lavorare tutti insieme su questo tema, a prescindere dai colori politici. La politica di tutti i giorni, locale, di prossimità, deve darsi 2-3 obiettivi e spiegarli ai cittadini, coinvolgendoli per raggiungerli: più bici e meno auto, pannelli solari, le comunità energetiche, che democratizzano la questione. Invece si dà sempre la colpa al vicino, si difende il campanile, ci si divide in tribù, o si pensa ai complotti cinesi. Guardate che i cinesi, che pure hanno i loro difetti, hanno raggiunto con un anticipo di 5 anni il loro obiettivo del piano sui pannelli fotovoltaici!».
Nonostante i Fridays for future, le mobilitazioni, gli appelli, pare che nessuno si assuma il compito di guidare i continenti o parti di essi alla transizione ecologica.
«Il problema è proprio qui. Serve senso di responsabilità e leadership che non vedo. Serve uno scatto. Occorre fare, partire. La Danimarca 40 anni fa era vista come un paese di matti perché investiva sull’eolico. Oggi è leader con diverse aziende e centrali. Serve avere il coraggio di fare un primo passo. Ci sono tre piani su cui lavorare».
Quali sono questi tre livelli?
«Il primo è la motivazione politica. Poi gli interessi economici. Infine le spinte culturali, antropologiche. Altrimenti c’è rassegnazione. La questione climatica è come un lutto. C’è la disperazione, poi per difendere la nostra zona di comfort tendiamo a rimuovere. La narrazione prevalente abbina la mitigazione del cambiamento climatico a dei sacrifici intollerabili. Non è così».
Si dice che si cambia comportamento quando diventa di moda o appetibile? Ma attraverso quali leve?
«Cambiare stile di vita fa bene. Alcuni atteggiamenti ecosostenibili coincidono con il nostro beneficio: se andiamo in bici stiamo meglio, con un impianto fotovoltaico e pompa di calore dopo 5 anni ripaghiamo l’investimento e risparmiamo parecchio. Serve un approccio radicale. Siamo sicuri che ci serva lavorare 15 ore al giorno e accumulare denaro, consumare ogni risorsa? Teniamo conto che la CO2 immessa nell’atmosfera oggi vi resta per cent’anni. Oggi paghiamo errori del passato, come ci rinfacciano i cinesi».
Nel campo dei trasporti il passaggio all’auto elettrica può davvero dare dei benefici per ridurre la quantità di anidride carbonica nell’atmosfera?
«Il passaggio all’auto elettrica direi che è irreversibile. Basta guardare i listini dei produttori. Chi non ci crede, si metta il cuore in pace. Sul fronte bus, camion e treni, vedo ampio spazio per l’idrogeno, i biocombustibili e carburanti sintetici. La criticità è rappresentata, per l’auto elettrica, dall’approvvigionamento dei materiali per le batterie. Ma la tecnologia avanza. In Norvegia, che ha già batterie di auto elettriche a fine vita, le hanno convertite in accumulatori per le case e dato altri 5-6 anni di vita a quelle batterie esauste. Io sono nel cda del Politecnico di Torino e da noi ogni settimana ci sono brevetti da parte dei nostri elettrochimici per riciclare il litio, o consumare meno litio e cobalto».
Ogni giorno in Europa ci sono 34mila voli aerei. Il mondo globale ha il suo prezzo anche nell’inquinamento atmosferico
«Certe compagnie con voli a 9 euro hanno spinto anche i viaggi inutili, certo. Dobbiamo spingere sul treno, come la Francia, per viaggi sotto le 2-3 ore di durata. Ma gli aerei contribuiscono solo al 4% dell’inquinamento atmosferico. Ci sono le macchine, soprattutto: il 50% degli automobilisti italiani percorre massimo 3 chilometri per il proprio spostamento: assurdo»