L'esperto
venerdì 4 Agosto, 2023
di Francesco Barana
Un alpinista rockstar: talentuoso, geniale, ma fragile, tormentato, maledetto. La vita di Gary Hemming, arrampicatore californiano, eroe del leggendario salvataggio di due scalatori sul Petit Dru nel 1966, morto suicida tre anni dopo in un campeggio del Parco Nazionale del Teton nel Wyoming, è stata ripercorsa da Enrico Camanni, alpinista, scrittore e giornalista torinese, nel romanzo Se non dovessi tornare. La vita bruciata di Gary Hemming, alpinista fragile (Mondadori.) Camanni nel weekend sarà in Trentino per presentarlo: domani a Levico assieme alla scrittrice Valeria Tron (alle 18 al Parco delle Terme, Installazione Sequoia); domenica mattina a Malga Mondent in Val di Rabbi.
Camanni si sofferma anche sui temi di attualità che riguardano la «sua» montagna: dall’antropizzazione di massa che diventa overtourism, ai cambiamenti climatici, fino alla convivenza dell’uomo con orsi, lupi e animali predatori.
Camanni, su Gary Hemming lei scriveva articoli trent’anni fa, adesso gli dedica un romanzo. Chi era?
«Un grande alpinista, che ha portato in Europa la scuola californiana dell’arrampicata. E una figura misteriosa. Un maudit. Un ribelle che ha incarnato il Sessantotto prima del Sessantotto, come i Beatles o George Best. Con un carico di contraddizioni tra il personaggio che, suo malgrado, era diventato e la persona che era davvero. Un carico diventato per lui insostenibile e che ha dato il via al suo processo autodistruttivo».
Hemming diventò un eroe senza volerlo…
«Era una persona riservata, che aveva scelto di vivere ai margini. Non aveva voluto una casa, una famiglia, un conto in banca, un’auto. Nulla. Improvvisamente, dopo i fatti del Dru, diventa un eroe, finisce in copertina, la gente lo ferma per strada. Su di lui si creano delle aspettative che non sa reggere e che sbriciolano il suo equilibrio interiore».
Il personaggio che si «mangia» la persona…
«È capitato a tante celebrità, Jim Morrison, Luigi Tenco, Sinéad O’ Connor. Persone sensibili e fragili che non riescono a sopportare il successo. Su di loro la gente proietta addosso delle aspettative che non possono sostenere. Da Gary Hemming la gente forse avrebbe voluto un salvataggio al giorno. Era amato non per quello che era, ma per quello che la gente voleva che fosse».
Con Hemming la montagna era cosa di pochi, oggi è diventata luogo super-antropizzato di turismo di massa. È un fenomeno sostenibile?
«Il turismo di massa non è mai sostenibile. Il vero problema non è il turismo sportivo, quello delle escursioni, delle ciaspolate, delle arrampicate, della bici, che si è sviluppato ma ha numeri sostenibili e si può gestire attraverso l’educazione alla montagna, ma il turismo industriale. Mi riferisco a quelli che si muovono in auto, attraversano i colli e si fermano nei bar, oppure si accodano negli impianti da sci. Questo è un turismo problematico, frivolo, su cui va valutato un numero chiuso».
Anche la massa di frivoli ha scoperto la montagna, storicamente metà di turismo impegnato e di nicchia. Come se lo spiega?
«Il Covid ha accelerato un processo già in atto: nel momento in cui nessuno poteva andare lontano, tutti andavano vicino. Inoltre oggi la montagna è più accessibile, offre più cose. Attenzione, questo ha creato anche mode positive. Accennavo prima allo sviluppo del turismo sportivo. Oggi camminare, andare in bicicletta, fare escursioni è di moda, mentre fino a qualche anno fa c’eravamo solo noi e ci pensavano strani».
La forte antropizzazione della montagna complica inevitabilmente la convivenza dell’uomo con gli animali predatori. Il presidente trentino Fugatti si è schierato per l’abbattimento di alcuni orsi e, di recente, per la rimozione di due esemplari di lupi. È questa la strada?
«La convivenza rimane l’unica soluzione. Ma non mi piace questo dibattito tra gli estremi, inquinato dalle semplificazioni banali. Da un lato abbiamo i cittadini metropolitani che hanno una visione da cartone animato dell’orso o del lupo; dall’altro ci sono i montanari che contrastano qualsiasi legge europea di ripopolamento dei carnivori. Non mi scandalizzo se si sopprime o si rinchiude un esemplare problematico, ma il tema è più complesso e ampio e richiede una scelta a monte…».
Quale?
«Cosa vuole fare l’uomo? Considerarsi l’unica specie vivente del pianeta ed eliminare tutti gli altri carnivori, oppure rendersi conto che siamo tutti parte di un mondo solo e scegliere di conviverci? È chiaro che in quest’ultimo caso dobbiamo rinunciare a qualcosa, vale per chi vive in montagna come per i turisti. Se invece non vogliamo rinunciare a niente, be’ abbattiamo tutti gli orsi e i lupi, magari neghiamo pure il cambiamento climatico. In quel caso diventeremmo ancora più padroni del pianeta, ma poi ci autodistruggeremmo».
La montagna qualche segnale, al riguardo, lo sta dando. Il cambiamento climatico è la causa della tragedia sulla Marmolada dell’anno scorso. E sotto i 1500 metri non nevica quasi più…
«La montagna è la cartina di tornasole del cambiamento climatico, perché anticipa i fenomeni. In montagna i cambiamenti climatici sono più rapidi, la temperatura si alza più velocemente. Se c’è un’alluvione in pianura, prima avremo le frane in montagna; se i ghiacciai si sciolgono davanti ai nostri occhi è il segnale inequivocabile che abbiamo sbagliato qualcosa e che stiamo andando verso una deriva irrecuperabile. Dovremmo guardarla con attenzione la montagna, perché è il segnale di quello che succederà poi dappertutto. Non credo che questo basti a risolvere il problema, ma quantomeno aiuterebbe a capirlo. Sarebbe già qualcosa visto che ancora c’è chi nega».