L'INTERVISTA
giovedì 10 Agosto, 2023
di Federico Oselini
Lengenfeld-Roma, 1660 chilometri: la fisarmonica verde è tornata a casa, in bicicletta questa volta. Si è conclusa pochi giorni fa la vera e propria retromarcia che Andrea Satta – cantante e fondatore della band Têtes de Bois, nonché medico pediatra della periferia di Roma – ha intrapreso assieme al figlio ventenne Lao e ad altri compagni ripercorrendo lo stesso tragitto fatto da suo padre Gavino (uno dei 650.000 militari italiani internati dopo l’8 settembre 1943) per rientrare in Italia dal lager a guerra finita, a cavalcioni dei respingenti di un treno, con un cappottone russo e una fisarmonica a tracolla. Il viaggio – tra Germania, Austria e Italia, passando per il Trentino Alto-Adige, e di cui il T quotidiano è stato media partner – ha visto Satta proporre nelle varie tappe il suo spettacolo «La fisarmonica verde», in cui narra la vicenda del padre, e dialogare con numerosi ospiti e varie comunità che sono diventati protagonisti di quello che lui stesso definisce «un viaggio d’amore per guardare al futuro, ribaltando il dolore e comprendendo l’importanza della libertà e dei diritti».
Andrea Satta, giunti alla fine di questo percorso qual è il suo primo pensiero?
«È stato un viaggio straordinario, l’ho avvertito come una possibilità nuova di raccontare una pagina di storia che rischia da un lato l’oblio e dall’altro, complice la scomparsa dei testimoni diretti, la sacralizzazione. Tutto ha riassunto una mia convinzione: che sia necessario individuare modalità concrete, partecipative ed emotivamente coinvolgenti al fine di portare avanti certe narrazioni e far riflettere sulle pericolose derive che possono verificarsi nella storia. Un’azione fisica, come l’andare insieme in bicicletta e parlare della storia dei propri genitori e dei propri nonni, può essere una di queste».
Che accoglienza ha ricevuto nei vari luoghi in cui avete fatto tappa?
«Posso dire di essere contento. Siamo stati sempre accolti bene anche dai sindaci e dagli amministratori che in ogni località, anche estera, ci hanno sempre atteso con la fascia tricolore: questo è fondamentale perché significa che ogni comunità con cui siamo entrati in contatto si è resa conto di essere attraversata da una traccia ricca di significato e non ha voluto perdere quest’occasione di dialogo e confronto».
A partire da Lengenfeld, luogo dove suo padre è stato internato.
«Pensi che il sindaco, quando ci siamo recati al campo di concentramento, si è visibilmente commosso e poi ha voluto invitarci a cena e a pernottare a spese sue, cosa che non gli era stata assolutamente chiesta: ed è stata un’azione molto significativa perché ha aperto le porte, come lo si farebbe con degli amici, al figlio e al nipote di una persona che in quello stesso luogo ha sofferto tantissimo».
La vicinanza delle istituzioni alla sua esperienza assume una rilevanza significativa.
«A tal proposito le cito un altro episodio: al Passo della Futa, uno dei luoghi dove abbiamo proposto lo spettacolo – e dove sono seppelliti migliaia di soldati tedeschi nel cimitero militare germanico – ha voluto essere presente la Console della Germania in Italia. Venuta appositamente da Milano, ha voluto indossare il cappotto di mio padre: un gesto dal significato enorme».
A proposito dei tanti incontri fatti, quali sono i più significativi?
«Ci sono state tante persone in questo passaggio importante della mia vita, ma ci tengo a citare due incontri: uno programmato e l’altro casuale. Il primo è quello con il giornalista e scrittore Lorenzo Pavolini, nipote di Alessandro Pavolini – uno dei grandi capi del fascismo e l’ultimo segretario del Partito nazionale fascista – che fu giustiziato in piazzale Loreto: lui scopri questo passato solo da studente a scuola, e dopo aver raccontato la sua esperienza in un libro ha voluto intrecciarla con il mio percorso. Il secondo è quello con una persona che, dopo uno spettacolo, mi si è avvicinata confidandomi di essere figlio di “un italiano che ha mandato tante persone nei campi di concentramento” e di averlo scoperto solo dopo la morte del padre, arrivando a “non sapere più che persona aveva seppellito”».
Quest’ultimo episodio rivela la grande potenza maieutica del suo spettacolo.
«Assolutamente sì. Mi sono reso conto che riesce a smuovere qualcosa dentro le persone, e che l’esperienza che ho voluto fare assieme a mio figlio Lao e agli altri ha dato il la a delle emozioni e a dei momenti di urgente sincerità che al giorno d’oggi sono rarissimi».
È stato così anche per i giovani con cui siete venuti in contatto?
«Direi di sì: sono stati coinvolti, travolti e appassionati dall’esperienza. A tal proposito vorrei fare una riflessione: sono contro la nostalgia e penso che il tempo migliore che possiamo costruire sia quello da oggi in poi. I giovani sono l’ultima frontiera dell’ascolto e dobbiamo riuscire a coinvolgerli in percorsi sinceri ed emotivi, e non solo indirizzarli: in questo modo loro risponderanno sempre “presente”».
Ci parli del momento in cui «La fisarmonica verde» è ritornata a casa, a Roma.
«Siamo entrati in città con una staffetta di vigili urbani come scorta: abbiamo attraversato di domenica pomeriggio Piazza del Popolo, Via del Corso e i Fori Imperiali come avrebbe fatto una grande produzione cinematografica americana. Si è trattato di un altro capovolgimento incredibile indotto da quest’esperienza: il figlio e il nipote di uno di quei deportati che al tempo sono rientrati in Italia quasi misconosciuti dalla comunità, hanno ricevuto invece questa grande accoglienza. Era una nemesi forse necessaria».
Dopo il libro e lo spettacolo in cui racconta la storia di suo padre, sente ora di aver chiuso il cerchio?
«Le dico solo che, dopo aver conosciuto il sindaco di Lengenfeld, ieri a casa mia a Roma ho ospitato a pranzo una ragazza del posto che, dopo averci accolto in Germania, è arrivata in città per vedere lo spettacolo: questo ha reso quello che vedevo come un luogo esclusivamente di dolore, un luogo dove ora ho anche degli amici. Ma se mi chiede se il percorso è finito le rispondo di no: lo sarà quando smetteremo di dimenticarci degli errori commessi in passato e che potremmo ricommettere».
Chiudendo in metafora: la fisarmonica verde torna a casa per ripartire dunque.
«Per ripartire continuando a raccontare la sua storia e contribuendo a far emergere le storie delle altre persone: inizieremo a breve un progetto che la porterà, per due anni una volta al mese, nelle scuole dei vari quartieri di Roma. Sento di dover fare tutto ciò: da figlio di un deportato, da artista e da medico che conosce i giovani. Chi può farlo se non io?»
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