Terra Madre

sabato 12 Agosto, 2023

Marco Albino Ferrari: «Sogno un turismo di fatica e piccole valli diffuse»

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Il giornalista e scrittore ha incontrato il direttore del «T» Simone Casalini, in un appuntamento dove ha spiegato come le terre alte hanno reagito al suo libro
Marco Albino Ferrari

Riportando tutto a casa. Marco Albino Ferrari è da mesi impegnato in un tour che porta il suo ultimo libro, Assalto alle alpi, in tanti luoghi dell’arco alpino. Oggi di nuovo in Trentino. Oggi, al Parco Asburgico di Levico Terme il giornalista e scrittore ha incontrato il direttore del «T» Simone Casalini. Un’occasione dove l’autore ha spiegato in che modo le terre alte hanno reagito a questo libro che racconta la sfida, tremendamente attuale, che il turismo e lo sfruttamento della montagna ci pone davanti.

Marco Albino Ferrari che bilancio fa di questo suo viaggio a tappe nell’arco alpino?
«È stato interessante perché in questo viaggio e in questo territorio, che va dalla Valle d’Aosta fino al Friuli, passando per il Piemonte, la Lombardia e il Trentino, la risposta è stata molto partecipata. Chi viene agli eventi capisce la problematicità e l’urgenza che la questione ci presenta e che ci chiama ad un’assunzione di responsabilità. Una consapevolezza che va di pari passo con il riconoscimento delle mancanze dei decisori politici, che invece non vanno oltre gli slogan e le frasi fatte. Ci sono però dei contesti in cui si è scelta una direzione diversa, rispetto al turismo di massa e dello sci, e si sta lavorando bene. Penso alla val Maira (provincia di Cuneo, ndr) o alla Valtellina. Adesso guardo con curiosità al caso della Panarotta, penso si possa andare in una direzione nuova, con un’offerta turistica per certi versi unica in Trentino e che sarebbe all’avanguardia. L’alternativa invece è quella dell’accanimento terapeutico, insistendo sullo sci a quote ormai basse, lottando in un contesto in cui non si riesce a competere».

Parlava prima di chi deve prendere le decisioni, crede ci sia una profonda differenza tra quello che si dice, sostenibilità, attenzione all’ambiente, e poi quello che effettivamente si fa?
«Assolutamente. Basta guardare alla comunicazione turistica trentina dello scorso inverno. Solo sci al 100% senza presentare alternative. Invece bisogna prepararsi, diversificare l’offerta. Se è vero che comprensori come Madonna di Campiglio vanno a gonfie vele, ce ne sono altri che sono già in profonda difficoltà, che non reggono concorrenza e cambiamento climatico. Non si può offrire solo lo sci, bisogna andare oltre. I tempi sono maturi, non solo perché ce lo impone il cambiamento climatico, ma anche perché le abitudini delle persone sono cambiate. Sono pronte ad esperienze che vanno oltre lo sci di discesa».

Quali sono le alternative?
«La montagna è già di per sé un’offerta. Conoscere il territorio, fare passeggiate invernali, con le ciaspole quando c’è la neve. E poi lo sci-escursionismo e lo sci-alpinismo. Vivere la montagna fuori dalla pista da sci significa aprirsi alla libertà. La montagna ha tanto altro da offrire, un universo in cui la pista da sci diventa solo una parte dell’offerta».

Più in generale preoccupa la monocultura turistica nelle valli?
«È un problema ora. Stiamo plasmando le montagne a uso e consumo del turista. Il paradosso è che negli anni ’60 il turismo ha salvato le alpi dallo spopolamento, offrendo un’attività remunerativa sul posto ai residenti. Oggi siamo all’opposto: dove c’è grande pressione turistica le valli si spopolano. Questo accade perché i prezzi si alzano e chi vive del proprio lavoro non riesce a permettersi l’affitto, la casa e la vita in generale. Cortina è un esempio perfetto di questo, sta vivendo un calo demografico del 3,6%. Il costo della vita è diventato insostenibile per i cortinesi».

L’assalto alle alpi non è solo invernale
«No certo anche estivo. Secondo me parte di questo boom turistico è frutto di una concezione idilliaca della montagna, rappresentata sempre sotto gli stessi stereotipi. Quelli del luogo ameno, bello e salubre. In realtà bisognerebbe raccontare le terre alte per quello che sono, un luogo in cui la natura non è sempre accogliente, in cui ci si deve mantenere e proteggere cercando un equilibrio per la convivenza. Penso al tema dell’orso. Chi dice “siamo andati a casa dell’orso” non sa di cosa parla. La montagna non è natura incontaminata, ma un territorio plasmato dall’uomo. È la somma del sudore, degli sforzi e delle fatiche compiute dall’uomo per vivere in un ambiente ostile. La montagna italiana quindi è natura più cultura, luogo di vita. Spesso chi viene dalla città non se ne rende conto, intrappolato nella sua prospettiva urbana che lo porta a dividere nettamente spazio urbano, fin dove arriva la strada, da spazio naturale, tutto il resto. Ma le alpi non sono né l’Alaska né il Canada, quindi la convivenza con il selvatico va governata».

C’è sempre di più una tendenza a “regalare” la montagna al turista?
«Diciamo che ci sono due punti di vista. C’è la montagna che guarda alla discesa, quella dello sci ma anche degli impianti d’estate. Un’offerta già pronta e fatta, ma in crisi. La montagna che guarda alla salita è invece quella più vicina all’essenza delle alpi. Una dimensione di fatica e di conquista, di un nuovo punto di vista. Bisogna accettare la fatica, un investimento che si fa per arrivare nei luoghi e che ripaga durante e alla fine del percorso. Se la si sopprime per strizzare l’occhio al pubblico pigro perdiamo il valore più intrinseco della montagna».

Avrà visto le immagini delle Tre Cime di Lavaredo prese d’assalto
«Sì e mi mettono grande tristezza. Perché sono all’opposto di come vedo io il futuro turistico della montagna. Al modello della monumentalità alpina va contrapposto quello della scoperta personale. No al grande polo di attrazione turistica, no al concentrato e grande sì al piccolo e diffuso. Un turismo fatto di piccole valli secondarie. Un turismo sparpagliato non solo nello spazio, ma anche nel tempo, rendendo più vive la primavera e l’autunno che sono momenti bellissimi della montagna».

Un’ultima domanda, era stato travolto dalla questioni delle croci di vetta. Tanto da abbandonare il Cai e il progetto editoriale dello Scarpone. Ora a freddo che ne pensa di quella sterile polemica? Si aspettava più protezione dal Cai?
«Io non mi sento vittima di nulla. Chi, come me, lavora nella comunicazione e nel giornalismo conosce queste dinamiche e non si stupisce. Dovremmo migliorare in generale. Non è stato piacevole vedere mettersi in moto la macchina del fango che ha generato fake news e polemiche su cui speculare politicamente. Per lo Scarpone il mio lavoro di progettazione editoriale era finito, la macchina era pronta. Mi dispiace per Pietro (Lacasella, che era stato nominato direttore anche lui dimissionario a seguito delle polemiche, ndr) che avrebbe dovuto guidare quella macchina e non ha avuto tempo di esprimersi. Dal Cai non cerco e non cercavo protezione. Io mi assumo le mie responsabilità. Il presidente ha detto quello che doveva dire, sarà lui che dovrà rispondere a sé stesso».