Campi Liberi
domenica 20 Agosto, 2023
di Lorenzo Fabiano
È la domenica pomeriggio del 28 agosto 1988 a Ronse, cittadina fiamminga del Belgio che i Valloni chiamano Renaix: sul rettilineo finale il campionato del mondo di ciclismo se lo giocano in tre, l’idolo di casa Claude Criquielion, il canadese Steve Bauer e un ragazzo trentino di Cles, Maurizio Fondriest; Bauer e Criquielion scattano, il canadese sferra una gomitata galeotta al belga che finisce lungo disteso sull’asfalto; dietro, Maurizio se ne sta a ruota a distanza di sicurezza dai guai, poi parte a sua volta e il mondiale è suo, a ventitré anni. Tra i due litiganti, il terzo gode: un classico. «Il mondo è di Fondriest» titola l’indomani a tutta pagina la Gazzetta dello Sport: «La prima pagina della Gazzetta per uno sport che non fosse il calcio…beh, vuol dire che avevo fatto davvero qualcosa di importante» sospira Maurizio Fondriest trentacinque anni dopo.
I tifosi belgi, infuriati, non la presero benissimo. E credo che le scatole gli girino ancora oggi per l’epilogo di quel mondiale…
«Io non c’entravo nulla, era stato Bauer a far cadere Criquielion. Ma allora mica c’erano i telefonini o altro per rivedere la volata, non avevano capito come erano andate le cose. Accompagnato da un membro della federazione e dall’amico Angelo Dalpez, presidente del Comitato Trentino per 14 anni e poi vice presidente della Fisi (prima del ciclismo da ragazzino Maurizio si dedicava allo sci, ndr), stavo risalendo il rettilineo d’arrivo per raggiungere il controllo medico quando vidi un cordone di polizia che a stento tratteneva i tifosi esagitati e rabbiosi. Lasciai la bici e tornai indietro salendo alla postazione della Rai: “Da qui non mi muovo finché non viene una macchina a prendermi” dissi».
Diretta dal grande Alfredo Martini, l’Italia fu perfetta. Lei in fuga, e dietro uno stoico Cassani a fare catenaccio. Martini disse che lei avrebbe vinto comunque.
«Un gran lavoro di squadra. Quando all’ultimo giro Criquielion scattò, fui lesto a portarmi subito su di lui; collaborai fino a un chilometro e mezzo dal traguardo, poi smisi di tirare. Quell’anno, per un errore di valutazione avevo perso la Milano-Sanremo lanciando la volata con Fignon. Non mi feci fregare un’altra volta; la sconfitta alla Sanremo mi servì da lezione per vincere il mondiale».
Un altro titolo mondiale di un trentino dopo quello di Francesco Moser undici anni prima in Venezuela. Si sentiva il suo erede?
«Apparteniamo a due generazioni diverse: abbiamo corso insieme un anno, lui smetteva e io iniziavo. Qualcosa di buono ho fatto, ma fare quello che ha fatto lui era molto difficile. Abbiamo sempre avuto un bel rapporto, da vent’anni facciamo il Giro d’Italia insieme con il gruppo Mediolanum».
Mondiale, Milano-Sanremo, Freccia Vallone, Tirreno-Adriatico, Campionato di Zurigo, due coppe del mondo nel 1991 e 1993: ha vinto tanto, ma sono altresì convinto che lei avrebbe potuto vincere di più. Sbaglio?
«La mia carriera è stata limitata dai problemi muscolari alla schiena che mi hanno martoriato. Il mio punto debole era il telaio, non il motore. Anch’io penso che avrei potuto vincere di più, ma ho tribolato tanto e il mio rimpianto è di non aver potuto correre dieci anni senza problemi. Ancora adesso faccio venti minuti di esercizi quattro mattine alla settimana. Con le conoscenze di oggi, forse quei problemi li avrei superati o perlomeno attenuati. Mio padre mi ha insegnato a non mollare nelle difficoltà: posso pertanto dire di avere dato il 100%, e anche di più, di quanto era nelle mie possibilità».
«Un ragazzo di quelli di una volta, cresciuti in famiglia. Suo padre prima di chiedermi se va forte e avrà un futuro da professionista, mi chiede se si comporta bene», disse di lei Eddy Gregori, ct della nazionale azzurra dilettanti.
«L’educazione che mi ha dato la mia famiglia è tutto, e la trasmetto ai miei figli. Onestà, rispetto, coerenza, e aggiungo la riconoscenza, di cui tanti spesso vedo si dimenticano».
La prima bicicletta?
«A nove anni, al negozio di Ermanno Moser in via Calepina a Trento, dove allora c’era suo padre. Io e mio fratello pregavamo papà di portarci lì a vedere le biciclette. Tenevano le Cinelli, e stavamo ad ammirarle per ore. Il nonno e papà ne comprarono due, una per me e l’altra per mio fratello. Tutto è partito da lì».
Da dilettante ha vinto tutto; un predestinato si direbbe oggi…
«Il primo anno vinsi una corsa, il secondo quattro con due tappe al Giro d’Italia, un quinto posto al mondiale e la vittoria al Giro di Lombardia. Nel 1986, l’anno prima di passare professionista, ne vinsi quattordici, comprese le gare internazionali e il Giro del Belgio, e al mondiale in Colorado arrivai settimo dopo essere stato in fuga tutto il giorno».
Un corridore di gran classe, da corse in linea ma non a tappe: perché?
«Ero magro come un chiodo, ma pesavo pur sempre settanta chili. L’ideale sarebbe stato averne cinque in meno, come Nibali, ma era la mia costituzione e non potevo farci niente. E poi nelle corse a tappe incappavo sempre in una giornata di calo e non andavo abbastanza forte in salita».
Lei non si è mai staccato da Cles: il suo rapporto con la sua terra?
«Giro il mondo, mi piace molto la Grecia, ma per vivere sto benissimo in Trentino».
Trentino che in quanto a piste ciclabili è all’avanguardia in Italia…
«Sì, ma purtroppo non qui in Val di Non dove non abbiamo nulla. La ciclabile che collega Cles a Mostizzolo avrebbe già dovuto esserci e invece ancora non c’è. Tutto è slittato per sciocche questioni campanilistiche tra sindaci. Il risultato è che un turista affitta la bici a Cles, e per fare tre chilometri rischia la vita. Ma le pare possibile?».
Al Tour de France si è divertito?
«Moltissimo».
Stava per Pogacar o Vingegaard?
«Nulla da ridire su Vingegaard, ma mi piace di più Pogacar».
Anche il mondiale di Glasgow è stato uno spettacolo…
«Da vedere sì, da correre molto meno su un tracciato con tutte quelle curve. Un circuito tecnicamente al limite per un mondiale. Detto questo, Van der Poel mi ha entusiasmato. È il mio corridore preferito».
Quattro fenomeni nelle corse di un giorno: Pogacar, Van Aert, Evenepoel e Van der Poel. Le piacerebbe correre oggi?
«No, sarebbe una tortura con quelli lì (ride, ndr)».
Ganna a parte, l’Italia fa molta fatica. Cosa non va nel nostro ciclismo?
«Serve una programmazione decennale. E la programmazione dello sport in un Paese la deve fare il governo, la federazione non basta».
Non abbiamo nemmeno una squadra nel World Tour…
«Vero, ma non è lì che fioriscono i talenti. Dobbiamo lavorare alla base e se la base è più ampia hai più probabilità in più di pescarne di talenti. Ripeto, la politica deve investire nella pianificazione dello sport, a partire dalla scuole».
Testimonial Mediolanum e Team Alpecin nel cicloturismo, il marchio di biciclette che porta il suo nome, ma tra le sue attività spicca oggi quella di procuratore. Qual è la prima cosa che dice ai suoi ragazzi?
«Dare il 100%. Noi non facciamo promesse, lavoriamo per metterli nelle condizioni di esprimersi al meglio e non avere rimpianti. Poi si vedrà cosa verrà. La cosa che fa più male è quando un corridore ti volta le spalle, ma così va il mondo. Fa parte del gioco e si va avanti».
Le avevano anche un offerto il posto di ct della nazionale, ma ha declinato. Perché?
«Perché mi piace troppo il lavoro che sto facendo. Abbiamo tanti ragazzi che ci danno belle soddisfazioni».
Il 28 agosto cosa fa?
«Sarò con mia moglie a visionare delle giovani promesse al Giro della Lunigiana. Il 29 è il suo compleanno e festeggeremo insieme. Ma per il trentacinquesimo anniversario del mondiale di Ronse andremo a Santiago di Compostela, dal 24 settembre in bici da corsa con il Team Alpecin e la Gazzetta dello Sport».
L'INTERVISTA
di Anna Maria Eccli
Violoncellista, sposata con un principe africano, gira il mondo per lavoro. Nella città della Quercia ha deciso di comperare un rifugio dalla vita frenetica parigina. Proprio accanto alla residenza per cui i suoi avi si indebitarono