Il racconto
martedì 22 Agosto, 2023
di Margherita Montanari
I suoi occhi sono stati gli ultimi a veder danzare Ermanno Salvaterra sulle sue pareti rocciose. Farmacista di Luzzara (Reggio-Emilia), 52 anni, legato a Pinzolo da una vita e ad Ermanno Salvaterra da una conoscenza, diventata amicizia, lunga quasi quarant’anni. Fino al momento del tragico incidente sulla cresta ovest del Campanile Alto, per Stefano Verdi nulla avrebbe potuto toccare in montagna quel maestro così immenso. Dai primi corsi di roccia al seguito de «L’uomo del Torre», il rapporto tra i due si era rafforzato. Tanto che in alcune occasioni Ermanno aveva concesso a Verdi di andare in cordata a comando alternato. Un regalo che lo riempiva d’orgoglio, perché fatto da quello che definisce commosso «il Superman della montagna». Il destino ha voluto che la sua danza si fermasse proprio sulle sue Dolomiti del Brenta, in un percorso familiare, dopo un volo di venti metri. «Ho sentito l’urlo e poi il silenzio – spiega a «Il T» l’amico, che subito dopo l’incidente aveva raccontato dell’incidente alla Gazzetta di Parma – Può darsi che non sia riuscito ad inserire il friend nella roccia o a mettere la sicura».
Qual è il suo primo ricordo di Ermanno?
«L’ho conosciuto quando ero ragazzino. Ci siamo iniziati a frequentare a metà degli anni ’80, quando facevo i primi corsi roccia. Più tardi ho iniziato a frequentarlo come guida alpina. Andavo con lui in cordata. E da qualche anno – per me era un grande segno di riconoscenza – potevo andare con lui in cordata a comando alternato».
Avete percorso tante vie insieme?
«Tante. Principalmente le vie classiche del Brenta. La via del Campanile Alto non era la più difficile fatta insieme. Avevamo percorso la via delle Guide e il Pilastro dei francesi, sul Crozzon di Brenta, la via Fox/Stenico. D’inverno ci piaceva lo sci ripido, di cui Ermanno era pioniere. Era stato tra i primi a fare il Canalone Neri. Lo abbiamo fatto insieme, come anche la Cima nord della Presanella. Quando capitava di andare in giro per boschi, invece, era sempre alla ricerca di camosci».
Venerdì stavate percorrendo in cordata la via Hartmann-Krauss. Al terzultimo tiro di corda è avvenuto il drammatico incidente. Cosa è successo?
«In quel tiro, io facevo sicura. Stavo alla base di un camino, vicino alla sosta.
Eravamo in quel punto perché di notte aveva piovuto e volevamo evitare di salire sul torrione. Ermanno arrampicava fuori dal camino, sulla parete sinistra. Nel momento in cui lui si è staccato dalla parete, io non potevo vederlo. Poco dopo mi ha avvertito che stava posizionando un friend, mi sentivo sicuro perché così assicurava la posizione. Pochissimi secondi dopo, è caduto».
Quindi non è riuscito ad inserirlo?
«Verosimilmente non è riuscito ad assicurarlo. Può essere che stesse posizionando il friend o testando la tenuta dell’ancoraggio. Tutte fasi delicate, in cui la presa è meno salda. Quando è caduto, la corda non era infilata nella protezione. E poi in tutto avevamo 7 friend, io ne avevo addosso 4, due erano utilizzati nella sosta, lui avrebbe dovuto averne uno addosso, secondo il mio conteggio. Tra lui e la sosta non c’erano altri appigli».
Cosa ricorda di quei momenti?
«Ho sentito un urlo, di quelli che si fanno per richiamare l’attenzione di chi sta facendo sicura. Poi un tonfo. Purtroppo, appena sotto il punto in cui mi trovavo io il terreno aveva balze pianeggianti. E lì Ermanno si è schiantato. Una sfortuna perché, se fosse stato più scosceso, forse, non sarebbe successo un fatto così grave. E stato un momento terribile. Non me lo aspettavo».
E stato lei a chiamare i soccorsi. Prima è riuscito a scendere?
«Mi trovavo sopra di lui di 12 metri. Mi sono calato e l’ho raggiunto. L’ho chiamato diverse volte ma non rispondeva. Penso che il decesso sia stato istantaneo. I soccorsi, che sono arrivati in tempi rapidissimi, non hanno potuto fare niente. Forse per lui è stata una fine tutto sommato naturale. Sulle montagne di casa, arrampicando, fino all’ultimo, le salite di una vita. Il fatto che io sia stato assicurato e che abbia retto di quanto fosse saldo il mio ancoraggio. Andare in giro con lui è sempre stata un’esperienza eccitante anche perché aveva totale padronanza di tutte le situazioni».
Che persona era in montagna?
«È sempre stato vulcanico, per energia e iniziativa. Sempre sereno quando si era in uscita, mai in tensione. Un fuoriclasse. In questi giorni, parlando con chi l’ha frequentato, è emersa l’immagine di una specie di Superman della montagna. Lo shock di fronte a quello che è successo è anche dovuto all’impossibilità di credere che sia potuto succedere proprio a Ermanno. Su quelle vie lui danzava».
Per lei è stato una guida e un amico. Qual è l’insegnamento più importante che lascia?
«Quando arrivava in cima, non perdeva tempo. Aveva molta fretta di rimettere i piedi sul sentiero. Diceva: finché non sei tornato giù, la salita non è finita. Uno degli insegnamenti più saggi che ha lasciato. E poi porto con me la sua attenzione agli aspetti etici dell’arrampicata, il rispetto per la montagna. Il suo idolo era Paul Preuss, arrampicatore austriaco di cui stimava l’intuito, la capacità di aprire vie e poi discenderle».
Al di là dell’alpinista, che persona era?
«Era una persona generosa. In lui vedevi la soddisfazione di darti una mano. Del cliché dell’alpinista aveva la schiettezza, la comunicazione diretta. Però non era solitario: era un uomo che comunicava, che stava con gli altri. Era impossibile non sentirlo».
In che senso?
«Aveva un tono di voce altissimo. Da tempi immemori, prima di conoscerlo direttamente, me lo ricordo sulle piste da sci. Tutti lo riconoscevano per la sua voce, riecheggiava. E i bambini lo apprezzavano. Anche per le storie che raccontava mentre insegnava da maestro: fiabe sugli animali e il bosco, da lui stesso inventate. Ci ha scritto un libro».