L'intevista
giovedì 24 Agosto, 2023
di Leonardo Omezzolli
È sommerso dalle chiamate di amici, conoscenti e giornalisti che vogliono sapere quello che è accaduto al suo drago, il «Drago di Vaia», immagine diventata iconica per la forza espressiva che l’artista Marco Martalar ha saputo imprimere grazie all’utilizzo dei legni provenienti dagli alberi divelti dalla forza della tempesta Vaia, tra questi quelli provenienti dall’Avez del Prinzep, l’abete bianco più alto d’Europa fino al suo crollo. Martalar ha vissuto le prime ore di questa profonda ferita artistica artistica e culturale in un’attonita incredulità.
Marco, quando è stato avvisato dell’incendio che si è portato via il Drago di Vaia?
«Già ieri (martedì ndr) sera, alle 22.30. Mi ha chiamato il sindaco Isacco Corradi che diretto senza giri di parole mi ha detto “Stà bruciando il drago”. Sono rimasto senza fiato e non sono riuscito a prendere sonno. Poi, il mattino seguente ha raggiunto Magré».
Cosa ha visto?
«Tante persone, che si muovevano per dare una mano attorno alle ceneri e si è percepito un senso di infinita tristezza»
In quel momento che cosa le passava per la testa?
«Incredulità, amarezza e una domanda persistente: “Come può essere che sia capitato? Come può la mano dell’uomo aver commesso questo?»
Cosa significa per un artista perdere la propria opera?
«Ho impiegato mesi per realizzarlo e in 20 minuti se ne è andato. Ma non sono io quello che ha perso il Drago. Era il drago di Magré, di questa gente che oggi è accorsa unita a dare una mano come poteva. Per me è una ferita profonda perché il Drago di Vaia è stata quell’opera che ha dato una svolta alla mia arte e come tutti i momenti chiave anche questo è impresso in me profondamente. Sapere che non c’è più è doloroso».
Quel Drago non era solo un’attrazione, ma un simbolo di rinascita, di sensibilizzazione, un monito per le nuove presenti e future generazioni. Il fatto che non ci sia più per mano umana è una sconfitta?
«Sì, lo è. È una sconfitta perché non siamo riusciti in quello che era il nostro intento. Prima il vento e ora il fuoco, questo legno non ha pace. Solo che l’elemento dell’aria aveva una connotazione naturale, climatica, questo fuoco è segnato dalla mano diretta dell’uomo».
Un’intera comunità si è mossa per il Drago. Ne è sorpreso?
«Da quando sono arrivato vedo persone che arrivano commosse, con gli occhi lucidi e con le lacrime agli occhi. Questo Drago non era più mio, ma di questa comunità e oggi l’ho percepito a pieno. Si è capito quanto era entrato nel cuore della gente, quanto bene ha fatto a questo borgo, a questa valle»
Cosa farete ora? Lo ricostruirete?
«Così a caldo è difficile rispondere. Sinceramente non lo so, non ho questa risposta. Però non si può lasciare quanto successo senza una risposta. Questo sì. Bisogna reagire all’atto violento. Bisogna dare una risposta forte. Come era stato il Drago per Vaia così dovremo trovare un modo per combattere l’esito funesto delle fiamme. Come è davvero impossibile da dire ora, bisognerà riflettere e far passare l’onda dell’emotività».
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