Campi liberi

sabato 26 Agosto, 2023

Dal Colorado a Stava fino al Brenta: i luoghi della nostra memoria

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Le «Spoon River» del Trentino sono rappresentate da 456 cimiteri e mille cenotafi che raccontano le biografie delle persone e la storia

«Dove sono Emer, Herman, Bert, Tom e Charley, / il debole di volontà, il forte di braccia, / il buffone, il beone, il rissoso? / Tutti, tutti, dormono sulla collina.
Uno morì con la febbre, / uno fu arso in una miniera, / uno fu ucciso in una zuffa, / uno morì in una prigione, uno cadde da un ponte lavorando per la moglie e i figli. Tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina».

Quante sono le «Spoon River» del Trentino? I cimiteri e i cenotafi lungo le strade, nei boschi o lungo i sentieri, che conservano, come uno scrigno, frammenti di memoria; che rimandano alle storie, al vissuto, ai drammi e ai momenti felici, della vita di coloro che hanno attraversato il nostro e l’altrui cammino, quanti sono? Di quanti rami, ma soprattutto di quante radici è fatto l’albero degli antenati?
Nei registri delle parrocchie trentine, conservati in microfilm dall’Archivio diocesano Tridentino, sono segnati i nomi e i cognomi di 7-8 milioni di persone nate e vissute nel territorio della diocesi di Trento tra il XVI secolo e il 1924.
Il ricorso all’antologia di «Spoon River», alle 244 biografie immaginarie, ma non troppo, che il poeta americano Edgar Lee Masters (1868-1950) pubblicò dal 1914 al 1915 su un giornale del Missuri, è utilizzato con frequenza dai giornali anche di casa nostra. Soprattutto quando si scrive dei delitti e delle pene, dell’omicidio di donne e di uomini strappati alla vita da mani assassine. Le nostre «Spoon River» sono fatte di 456 cimiteri, di oltre mille cenotafi lungo le strade (il cenotafio è una lapide senza una tomba), di migliaia di croci che rammentano vite strappate e vite perdute nel fiore degli anni. Dalla guerra all’emigrazione, dal viaggio all’avventura, dall’escursione al lavoro, dalle sciagure ai disastri naturali e non, è tutta una «Spoon River» alla quale si fa caso raramente. Fa parte del paesaggio, soprattutto lungo le strade dove corrono, e talora si schiantano, motociclisti ed automobilisti. In trent’anni, dal 1978 al 2009, in Trentino-Alto Adige si sono avuti 109 mila incidenti stradali con 4.833 vittime (e 147.462 feriti). Restrizioni e divieti hanno leggermente rallentato la velocità e ridotto il numero delle vittime: nel 2020, 56 morti in regione di cui 24 in provincia di Trento; nel 2021, 49 morti sulle strade di cui 25 in Trentino; l’anno scorso 33 vittime in Trentino, altrettante in provincia di Bolzano. Taluni sono ricordati con un segno, una croce o mazzo di fiori, a lato della carreggiata, nel luogo dove hanno perso la vita. La «Spoon River» più elevata del Trentino è una cappella scavata nella roccia, a 2.487 m, accanto al rifugio «12 Apostoli», nel gruppo di Brenta. Fu realizzata nel 1952 in seguito alla sciagura accaduta il 26 luglio 1950. Caduti in un crepaccio, sulla Vedretta dei Camosci, diretti al rifugio «Brentei», morirono quattro studenti universitari trentini: Vittorio Conci, Giuseppe Fiorilla, Maria Rita Franceschini e Mauretta Lumini. Agonizzarono nel ghiaccio per oltre due giorni prima che due escursionisti ne udissero i lamenti ed attivassero, inutilmente, i soccorsi. Dal 1953, nella grotta con la parete d’ingresso a forma di croce, sono stati murati più di duecento cenotafi, a memoria di vite strappate sulle vette, tra le rocce, lungo i sentieri di montagna. Come i sei ragazzi ed un loro accompagnatore, sepolti e uccisi da una slavina di ghiaia e di fango, il 17 luglio 1991, lungo il sentiero poco discosto dal rifugio «Brentei».
Ogni anno, l’ultima domenica di luglio, nella cappella ai «12 Apostoli», una messa li rievoca tutti, mentre i coristi della Sosat, sul pentagramma di Bepi De Marzi, invocano il «Signore delle cime».
Altrettanto struggente, anche perché distante nello spazio e lontana nel tempo, resta la «Spoon River» dell’emigrazione, a 2.840 m., sulle montagne di Silverton, nel sud del Colorado, dove ancor oggi affiorano qua e là le tombe di almeno 150 minatori trentini: morti per lo scoppio di una mina, per la silicosi o per la pandemia di «febbre spagnola» che nel 1918 menò strage anche in quelle contrade.
I nomi dei 268 morti di Stava, di quel tragico 19 luglio 1985, sono fissati su quattro lastre di porfido nel cimitero di San Leonardo, a Tesero, recuperato nell’emergenza e divenuto il «santuario» degli innocenti. Scrisse Paolo Ghezzi, nel ventennale del disastro, una sua «Spoon River» su quelle «vite ingioiate dal fango. Nomi da non abbandonare nel buio». Passò tra le tombe e segnò sul taccuino tutti i nomi di quel cimitero: «Erano mariti e mogli, padri e madri, figli e figlie, nonni e nipoti, zii e cognati. Erano famiglie italiane qualunque: quelle brianzole, o milanesi, o reggiane, o venete, o romane, o marchigiane in vacanza; erano gli operai trentini o le cameriere sarde che stavano lavorando lassù; erano i teserani che avevano gli alberghi o le case spazzate via».
Ancora: «Ma provate a scriverli, 268 nomi, cognomi, età e luoghi di residenza. La mano si stanca, il cuore si commuove a rileggere, soprattutto i più piccoli e i più vecchi, quelli più fragili, meno esperti o troppo stanchi…». Tra quelle tombe sostò, turbato e pensoso, perfino il Papa. Era domenica 17 luglio 1988. Karol Wojtyla, oggi santo della Chiesa di Roma, camminò lentamente in quel «microcosmo di Italia, inghiottito e spazzato via».
Ma altri cenotafi, in quella stessa valle di Stava, rimandano a cronache divenute d’attualità in questo sciagurato 2023. Nel giardino della cappella alla Palanca, una lapide di granito, collocata il 18 agosto 1939: «Rammento della fatale lotta fra l’uomo e l’orso, avvenuta il 5 novembre 1727, allorquando il famoso cacciatore di orsi Bartolomeo Longaru, detto Turchin, ferì d’archibugio un’orsa mamma ingaggiando un tremendo corpo a corpo col bestione inferocito, così precipitarono entrambi esanimi dalle qui sovrastanti balze dei Cornacci».
Le guerre lasciarono cicatrici che ancor oggi, sia pure sbiadite, attirano l’occhio del passante. A Cognola, per esempio, due lapidi sul pilastrino di un portico fanno memoria di Maria Fedrizzi, 10 anni, «vittima di guerra» il 9 giugno 1918, quando anche il «caro angioletto Inginio Dorigatti, d’anni 5, fu crudelmente rapito da fatal proiettile». Poco lontano, sulla spalletta del ponte sulla Fersina, a Ponte Alto, si rammentano «Franco Merz e Franco Pontalti di anni 15, sempre uniti nella vita e qui insieme, il 25 settembre 1968, tragicamente perirono». Stavano scendendo in bicicletta da Povo; finiti contro un muretto furono catapultati nella forra. I due quindicenni lasciarono «ai loro cari i più bei ricordi della loro adolescenza».
Per tornare in città, i frati trentini «dormono» tutti sulla collina. Dei Cappuccini e del loro convento di via della Cervara, che tra qualche settimana passa di mano, resta una cappelletta in cima alle vigne, sul limitare di un prato. Due lapidi, all’interno, rammentano che sotto il pavimento furono seppelliti i religiosi morti tra il 1845 e il 1950. Nel 1957, le ossa furono dissotterrate e trasferite nel cimitero di Rovereto. I frati Francescani, invece, hanno la tomba sulla collina, sopra il convento di via Grazioli. Nel piccolo cimitero un cippo, uguale per tutti. Fanno eccezione i religiosi divenuti vescovi. Per loro, una lapide è murata sulla facciata della cappella. Sull’ultimo tumulo di terra è piantata una tabella di ferro con la scritta: «Chi sarà il primo»? Ovvero, chi sarà il prossimo? Per rammentare a loro ed a noi un destino comune. Da affidare alla «Spoon River» dei giorni o degli anni a venire.