L'INTERVISTA

venerdì 1 Settembre, 2023

Alberto Simoni legge le elezioni americane: «Biden-Trump sarà la sfida»

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Il giornalista roveretano: «I processi non fermeranno Donald. Il presidente uscente meglio di Obama. L’Europa? In cerca d’autore»

È passato un anno e mezzo ormai dall’invasione russa dell’Ucraina. Un evento destinato a segnare un prima e un dopo nella storia del mondo e che ha portato a profondi cambiamenti nell’assetto geopolitico delle nazioni. L’ultimo esempio di questo stato liquido delle alleanze tra nazioni, che prendono la forma del contenitore più utile al momento ai propri scopi, è stato il meeting dei Brics, i Paesi delle economie emergenti (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), che ha accolto nei suoi ranghi 6 nuovi membri, lanciando la sfida economica al dominio del dollaro. Proprio dall’altra parte si trovano gli Stati Uniti, anch’essi molto più mutevoli che in passato e con elezione presidenziale ormai distante poco più di un anno e che potrebbe rivelarsi cruciale anche per il futuro del resto del mondo. Al centro questo movimento, immobile nell’occhio del ciclone, c’è l’Europa, un «personaggio ancora in cerca d’autore« come la definisce il giornalista e corrispondente dagli Stati Uniti per La Stampa, Alberto Simoni. Il reporter, di origini trentine, sarà alla biblioteca di Tione questa sera alle 20.30 per parlare del suo ultimo libro «Ribelli d’Europa» dedicato alle «democrazie illiberali da Visegrad all’Ucraina» e più in generale di questo mondo, mai così liquido.
Simoni lei è appena rientrato dagli Stati Uniti, si respira già il clima da campagna elettorale?
«Possiamo dire che le presidenziali sono ufficialmente iniziate, ma non tanto per il confronto sui temi o per la sfida alle primarie repubblicane, quanto perché il ciclone Trump, da un punto di vista giudiziario, ha iniziato a monopolizzare l’attenzione dei media e quindi il dibattito politico. Per i repubblicani Donald è come il sole, ruota tutto attorno a lui, il partito non riesce ad esprimere una leadership alternativa. C’è una parte consistente della base che è legata a lui sia per la sua figura che per le sue idee, poi c’è anche una parte che non lo vede di buon occhio, ma mai voterebbe per un democratico per quanto moderato come Biden».
Ecco le vicende giudiziarie che effetto stanno avendo sul consenso di Trump?
«Trump è stato incriminato per 4/5 circostanze. Alcune anche gravi come i fatti di Capitol Hill, la sottrazione di documenti classificati ritrovati nella sua villa di Mar-a-Lago e il tentativo di influenzare il risultato elettorale in Georgia. Chiunque abbia letto i capi d’accusa fatica a immaginare come Trump ne possa uscire innocente. Da un punto di vista politico però, ogni volta che c’è stata un’incriminazione, Trump ha goduto di un aumento di popolarità nei sondaggi ma anche, e forse più importante, nella raccolta fondi per la sua campagna. C’è quindi una base elettorale, quella composta dai cosiddetti “Maga”, che è ormai convinta che ci sia un complotto contro di lui e quindi interpreta attraverso questa lente tutte le notizie che lo riguardano. La polarizzazione dello scontro non permette loro un’analisi lucida dei fatti».
Una possibile condanna però bloccherebbe la sua strada verso la Casa Bianca?
«Sì e no. Diciamo che è complicato: le udienze dei processi sono fissate tra marzo e maggio e si tratta solo dell’inizio, non sappiamo quando si arriverà a sentenza. Diciamo che Trump ha tutto il tempo di essere condannato in primo grado, candidarsi ed entrare alla Casa Bianca da condannato. In America non esiste la legge Severino, non c’è scritto da nessuna parte che un condannato non possa essere presidente. Per questo Trump può trascinare questi casi giudiziari per anni su un binario parallelo alla normale dialettica politica. Va valutato il peso che poi questo possa avere sugli elettori. Si dice che stanno allontanando da lui il blocco moderato e gli indipendenti che non vogliono un presidente con questi trascorsi. Forse nei prossimi mesi vedremo un’accelerazione sul lato giudiziario ma intanto Trump ha trasformato la sua campagna politica in una campagna referendaria sulla sua innocenza. Sarebbe però uno smacco, una macchia per la più grande democrazia avere un presidente con questo retroterra».
Cambiamo campo c’è vita dopo Biden tra i democratici? O è giusto andare avanti con lui?
«Il grosso problema dei democratici è anche la loro fortuna: Joe Biden. Certo è anziano e in certi momenti mostra tutta la sua età: commette gaffe, si blocca quando parla e non è sempre facile ascoltarlo. Tutti aspetti comprensibili per una persona di 80 anni per quanto lucida. Questo però fornisce munizioni ai media conservatori per insinuare dubbi sulla sua capacità di governare. Detto questo ci sono due cose da sottolineare. La prima è che per tradizione un presidente non viene sfidato dal suo partito, per rispetto e perché ha già dimostrato di saper vincere. Il secondo aspetto che aiuta la causa di Biden è stato il risultato delle elezioni di mid-term. Tutti si aspettavano che perdesse e invece Biden, una vecchia volpe della politica che conosce il consenso, la base che sa dialogare, non le ha perse e anzi nel ’24 potrebbero riprendere il controllo della camera».
Insomma, ci aspetta un nuovo confronto tra Biden e Trump, due over 75.
«Sì e sono il primo a dire che Biden-Trump nel ‘24 è un’immagine poco edificante per gli Usa. Però siamo sicuri che tutta la politica debba essere impostata sulla retorica della velocità, del vigore, della forza e del giovane da social? Beh non credo sia necessariamente così e se guardiamo all’eredità di Biden in questi anni bisogna riconoscere che ha implementato politiche importanti. Inflazione, Green New Deal (infrastrutture), 52 miliardi per riportare in America la produzione di semiconduttori e microchip, senza parlare della politica estera. Ha fatto cose che il suo ex capo Obama non è riuscito a fare in 8 anni. Poi capisco che ci siano candidati con più appeal, più comunicativi, più social, però governare non è solo quello. Obama era tutte quelle cose ma cosa ha lasciato di concreto? L’Obamacare. Poi certo Biden nonostante i suoi successi non sfonda il 40% di popolarità, però dico: oltre l’età c’è di più».
I Brics si sono allargati e lanciano la sfida al dollaro, che ne pensa? Siamo di fronte a una nuova divisione in blocchi?
«Già il fatto che ci sia stato questo tentativo è la dimostrazione di come, dopo l’invasione dell’Ucraina, il mondo sia stato messo a soqquadro. Non sappiamo dove riusciranno ad andare i nuovi Brics, che successo avranno e se riusciranno davvero a sostituire il dollaro con questa nuova moneta. Gli analisti ne dubitano anche perché, ad esempio, i sauditi hanno relazioni strettissime con gli Usa ed è più facile tenere due piedi in due scarpe che uscire del tutto, però rimane un segnale importante. Ci dice che il mondo post invasione dell’Ucraina, che è stato a sua volta un convergere di movimenti tellurici precedenti, non può più essere legato solo alla potenza degli Usa. In parte perché hanno abdicato a quel ruolo, in parte perché negli ultimi 20 anni hanno fatto scelte sbagliate e perché a volte i loro interessi internazionali non coincidono con quelli degli alleati europei».
In mezzo a tutto questo c’è l’Europa.
«Citando Pirandello mi verrebbe da dire che l’Europa è ancora “un personaggio in cerca d’autore”. Non è ancora qualcosa di definito e non so se mai lo sarà. Forse perché le ambizioni erano troppo grandi. Vorrebbe essere potenza geopolitica, ma quando c’è stato bisogno di esserlo, con la questione dell’Ucraina, si è dimostrata un vassallo degli Usa su tutti i fronti: politico, energetico e militare. Incapace di essere un soggetto autonomo. La domanda è perché? Ci sono tanti motivi, il sistema di governance, gli Stati che non cedono a Bruxelles quote di sovranità su alcuni temi, ma soprattutto c’è una motivazione identitaria e ontologica. Come scrive Caracciolo l’Europa è stata il luogo delle guerre più cruente e dopo il secondo conflitto mondiale ha fatto di tutto per evitare altre guerre la domanda è ci siamo riusciti? La risposta è no. Penso agli anni ’90 e quello che accadde nei Balcani, e oggi all’Ucraina. Il problema dell’Ue è stata quella di voler congelare la storia. Arrivano statuti, regole e mettiamo ordine alla nostra storia senza tenere conto del fatto che è materia viva, ci insegna ma esistono sempre il caso e le incognite che non si possono normare. Citando il mio libro: l’arrivo dei paesi dell’est in Ue fa parte di questa frattura interna all’Europa. L’arrivo di bulgari, polacchi e rumeni, porta una novità politica che all’inizio piace all’Europa, che non coglie la diversità che c’è in questa parte d’Europa, che ha vissuto per 50 anni sotto il tallone sovietico in cui gli inni nazionali erano proibiti. Quindi quelli che noi chiamiamo rigurgiti nazionalisti sono invece i sintomi della necessità di riaffermare la propria nazione in una dialettica europea che non è quella di Berlino, Parigi o Roma. Tra 50 anni saremo tutti uguali? Non lo so, non credo. Nella volontà di normare la storia e normalizzare gli stati vedo il grande problema dell’Europa».