Terra Madre
mercoledì 6 Settembre, 2023
di Margherita Montanari
A 2.410 metri d’altitudine, in Val d’Ambiez, agli alpinisti capita di imbattersi in due grossi agglomerati rocciosi. Si sono fermati a pochi metri dal rifugio Silvio Agostini una mattina del lontano 18 luglio 1957. La loro corsa si è interrotta appena sopra le finestre delle stanze in cui dormivano gli escursionisti. Ancora oggi sono la testimonianza visiva di una montagna tutt’altro che statica. Cambia, si sfalda, scivola. E di questi tempi lo fa con molta più frequenza, sollecitata dal cambiamento climatico (vedi «Il T» di ieri). Negli ultimi dieci anni le frane in alta montagna sono state almeno 20. Si aggiungono agli effetti disastrosi degli eventi estremi – temporali, vento – che riscrivono la mappa dei sentieri e il lavoro dei volontari Sat e il modo di viverli dei rifugisti in quota. Una schiera di volontari e lavoratori curano la montagna. Ma sono anche i primi testimoni del suo grido di dolore.
Cambiano i sentieri
La rete dei sentieri Sat in Trentino è di 5.700 chilometri. Un groviglio di vie tra boschi, ghiaia e sempre meno ghiaccio. La manutenzione da parte dei 1.000 volontari e volontarie è continua. Ma il lavoro richiesto continua a crescere di anno in anno. Spiega Iole Manica, vicepresidente della Sat che «il cambiamento climatico in corso è molto impattante anche per l’attività di Sat». «La manutenzione dei sentieri – spiega – si pratica su luoghi sempre più difficili, tra crolli rocciosi, alberi caduti, piogge torrenziali. Quelle della scorsa settimana, ad esempio, hanno spazzato via interi sentieri. In quelle situazioni, i volontari si trovano a ripristinare da capo il sentiero». Un lavoro che, secondo Manica, «viene dato troppo spesso per scontato». Smottamenti, come frane e crolli di rocce, scioglimento dei ghiacciai, caduta degli alberi lungo i sentieri, piogge torrenziali che trasformano i sentieri in colate di fango. Il cambiamento climatico può costringere a lunghe chiusure le strade battute dagli escursionisti o trovare altre strade. A gennaio 2022, risultavano ancora chiusi perché non agibili, circa 70 chilometri di sentieri devastati tempesta Vaia a fine 2018. Da qualche giorno è chiusa tutta la Val di Genova, da Prisa ad appena sopra Carisolo, per danni provocati dal maltempo, fino alla rimessa in sicurezza. Nonostante il lavoro costante, riaprirli richiede tempo. Talvolta, le vie vanno proprio riscritte. Altre, oltre agli sforzi dei volontari, richiedono l’intervento del servizio forestale. «Le nostre squadre partono per tamponare i danni – spiega Manica – Ma rispetto agli eventi che si stanno verificando è sempre più difficile. La mappatura dei sentieri cambia in continuazione perché molti sono in crisi. Cambierà con sempre più frequenza».
Vedrette e morene
I rifugisti sono altre sentinelle del cambiamento climatico in quota. La famiglia di Roberto Cornella, 51 anni, gestisce dal 1976 il rifugio Agostini. Tra i casi che nella cronistoria dei rifugi costituiscono un prima e un dopo, c’è il crollo della torre Jandl, in val d’Ambiéz, nel cuore del Brenta. I frammenti di roccia, il 18 luglio del 1957, scesero verso il rifugio a 2.400 metri. Tre grandi massi, testimonianza della frana, giacciono ancora dietro la struttura, risparmiata per poco. Quei giganti di roccia non si sono più mossi. «I cambiamenti più evidenti della nostra zona interessano le vedrette e le morene. I ghiacciai si stanno ritirando e notiamo un continuo movimento ai lati. La scomparsa delle tracce di neve da dove ci sono sempre state comporta il venir meno di segnalazioni naturali», spiega il gestore del rifugio.
Se le «tracce» spariscono
Finché c’è neve c’è traccia. Ora però resta la ghiaia. «Dovremo trovare un nuovo modo per indicare i percorsi. Altrimenti, in caso di brutto tempo, non ci sono segnalazioni evidenti per indicare i percorsi agli alpinisti». Cornella ha preso in mano la struttura nel 1993. Trent’anni fa. «Anno dopo anno il cambiamento è sempre più evidente. Lo vediamo anche in come cambiano le ferrate: vengono continuamente allungate, ogni stagione di 3-4 metri». Un intervento che serve per servire aree lasciate scoperte dalle lingue di ghiaccio e neve. Allungare di pochi metri la corda e le staffe che permettono agli escursionisti di camminare è un’operazione relativamente poco impattante. Può persino passare inosservata a chi non ha quotidianamente sotto gli occhi la vedretta. Eppure, quello che rappresenta è un ghiacciaio che, anno dopo anno arretra. E costringe a correre ai ripari. Almeno finché sarà possibile farlo.
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