Cinema
lunedì 11 Settembre, 2023
di Simone Casciano
Il silenzio in sala, le luci che si spengono e la proiezione che inizia. Sono momenti classici al cinema, ma se il film o cortometraggio che viene proiettato è il tuo sanno regalare sempre un’emozione. Ancora di più se la prima avviene durante la Settimana della critica al Festival di Venezia come nel caso di «Pinoquo» del trentino Federico Demattè, residente a Milano, che è stato presentato in concorso in questi giorni. Fortuna allora che il giovane regista trentino ci è già passato e anzi è stato capace di vincere il premio per miglior regia e miglior film con il suo corto d’esordio «Inchei» due anni fa. La pellicola inizia con il beat rap degli In the Panchine (il side project dell’indimenticato TruceKlan) in sottofondo, in scena un gruppo di ragazzi e ragazze discutono dell’obbiettivo della serata: intrufolarsi di nascosto in una scuola. Anche in quest’opera di Demattè i temi al centro del corto sono quelli dell’adolescenza, ma al racconto individuale dell’esperienza di Armando, il protagonista di Inchei, si sostituisce quello di un gruppo di giovani e della loro avventura. La storia scorre proprio su questo doppio binario tra ignoto e noto. La notte, con le sue infinite possibilità, ma trascorsa invadendo un luogo conosciuto, la scuola. Amicizia, gelosia, amore, le emozioni e il loro sfogo anche distruttivo sono i temi che scorrono durante i 15 minuti di proiezione che lasciano lo spettatore con la sensazione di aver intuito qualcosa di importante, ma anche con la voglia di vedere di più. Forse la sensazione migliore che un corto possa lasciare.
Demattè, qual è la genesi di «Pinoquo»?
«È il mio primo lavoro autoriale dopo “Inchei” anche se cronologicamente lo presentiamo dopo “Battima” (il corto realizzato per Emergency e proiettato all’ultimo Festival di Roma, ndr). È il prosieguo di questa ricerca artistica sui giovani, sulle bande di periferia e sull’amicizia adolescenziale. Rispetto a “Inchei” direi che il linguaggio e l’atmosfera sono un po’ più cupi e la fiction prende decisamente il sopravvento sull’aspetto documentaristico. Direi che è un modo nuovo di lavorare sullo stesso mondo, mantenendo le tematiche ma sviluppandole in una mia linea autoriale più personale».
In «Inchei» il copione era stato modificato sulla base dell’esperienza sul campo. Questa volta?
«Qui si parte da una mia necessità, da una mia urgenza di raccontare che può essere catalogata come fiction. Il casting manovra meno la narrazione, lasciando alla scrittura il centro della scena. Poi è chiaro che gli attori portano molto di loro nel corto, della loro personalità e del proprio carattere, ma questa volta lo fanno declinando un racconto già scritto prima. E non potrebbe essere altrimenti visto che si tratta del racconto di una notte eccezionale. “Pinoquo” per gli attori è il racconto di un evento unico dove “Inchei” invece era la messa in scena della propria quotidianità».
A proposito degli attori, questa volta sono professionisti?
«Diciamo che è un mix. C’è un’attrice vera e propria, mentre gli altri sono dei ragazzi conosciuti allo skate park della Bicocca a Milano. Ho voluto tenere questa pulsione di cinema di strada anche in quest’opera».
Continua quindi a concentrarsi sul mondo dei giovani?
«Sì, penso che uno dei temi principali del corto sia il caos, la non comprensione reciproca, anche tra i protagonisti stessi. Credo sia un tema importante nella nostra società. L’incapacità di comunicare, di capirsi è un qualcosa che poi dà adito a congetture, sospetti e paranoie. Questo si collega bene anche alla difficoltà che hanno gli adulti a capire i giovani e a comprendere il conflitto generazionale. Perché è il mondo a essere sempre più complesso ed enigmatico, fatto di segni contrastanti. Gli adolescenti sono protagonisti di questo flusso di cambiamento e sono quindi i primi ad accorgersene e anche a manifestare nuovi simboli. Penso possa essere interessante per un adulto guardare questo corto, anche se non so cosa si porterebbe via. L’interesse per l’adolescenza per me è interesse per il contemporaneo di cui i giovani sono simbolo».
Il suo racconto riesce ad andare oltre a etichette come «baby gang» o «maranza» spesso usati per raccontare i giovani.
«Mi fa piacere. Si tende sempre a cercare categorie con cui etichettare i fenomeni, quando la verità è che tutto si mischia e si complica. La nomenclatura può anche funzionare, ma poi bisogna entrarci nelle cose. Se lo si fa, ci si rende conto che è tutto molto più complesso e stratificato di quello che pensiamo. “Pinoquo” è un’opera che ammette di non riuscire a essere precisa e lucida, ma è volutamente così. La comprensione è lasciata al pubblico».
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