La Storia

martedì 26 Settembre, 2023

Don Mattia Ferrari, il prete 29enne sulla «Mare Jonio»: «Vivo su una nave, salvo i migranti. E sono sotto scorta»

di

Il sacerdote: «La guardia costiera libica in mano alla mafia. La società si mobiliti»

Un giovane sacerdote di questi tempi, in un certo senso, fa notizia. Ma a colpire di don Mattia Ferrari, 29 anni, volto da ragazzino, originario di Modena ma da qualche tempo a Roma per la specializzazione universitaria in Dottrine sociali della Chiesa, sono il suo ruolo di cappellano di Mediterranea Saving Humans e la passione con cui racconta la sua esperienza, come ha fatto peraltro alcuni giorni fa anche a Campitello di Fassa. Da tre anni don Mattia vive, per diversi periodi, a bordo della nave Mare Jonio che soccorre i migranti in difficoltà ed è impegnato contro i traffici dei migranti tanto che, dopo le minacce ricevute per la collaborazione alle inchieste del giornalista Nello Scavo (l’Avvenire), vive come lui sotto scorta.
Che cos’è Mediterranea?
«È un’associazione che unisce persone e mondi lontani tra loro. È nata dopo una notte insonne di Luca Casarini, che molti ricordano come leader dei movimenti no-global e che di recente è stato nominato da Papa Francesco invitato speciale al Sinodo universale dei vescovi della Chiesa cattolica. In mezzo al passato e al presente di Luca c’è Mediterranea. Per alcuni anni Luca si è allontanato dai movimenti, si è trasferito a Palermo, città della moglie. Ma la conoscenza delle storie e delle sofferenze di tanti migranti, gli ha letteralmente fatto “contorcere le viscere”. Così ha ideato un progetto che coinvolgesse più forze e realtà possibili, presentandolo, tra i primi, all’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice, collaboratore in passato di don Pino Puglisi e don Luigi Ciotti. Questo incontro è stato fondamentale per Luca e Mediterranea, che opera per mare e per terra».
Tra emergenze e naufragi, cosa accade in mare?
«Il panorama è complesso e in continuo cambiamento. Quando è nata Mediterranea, nel 2018, la nostra era quasi l’unica nave in mare perché le ong straniere erano passate da “angeli del mare”, a “taxi del mare”, fino a vedersi chiudere i porti. Ora è in vigore il decreto che non consente soccorsi multipli, ovvero dopo un intervento bisogna dirigersi in porto, quando di solito le navi effettuano più salvataggi in diversi giorni. Tutto ciò contraddice l’obbligo del capitano di prestare assistenza immediata alle persone in difficoltà, come sancito dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare. Oltre a questo, l’aspetto più grave, è la guardia costiera libica, istituita nel 2017 per volontà dell’Italia e dell’Europa, che opera nella “zona sar (search and rescue) libica” effettuando soprattutto respingimenti e trasferimento dei migranti nei lager, anziché soccorsi. Realtà che non viene messa in evidenza».
È stato minacciato dalla mafia libica, che situazione c’è in quel Paese?
«Dopo la dittatura di Muʿammar Gheddafi, in Libia è scoppiata una guerra civile ancora in corso. Ora ci sono due governi: uno di Abdul Hamid Dbeibah e l’altro del generale Khalifa Haftar, uno riconosciuto dall’Onu e alcune potenze e l’altro riconosciuto da altre potenze. Gas e petrolio libici sono al centro di grandi interessi. In tutto ciò si inserisce la questione migratoria gestita da clan che operano anche attraverso la guardia costiera libica. L’inchiesta, del 2019, di Nello Scavo ha portato alla luce che la guardia costiera è nelle mani di Abd al-Rahaman al-Milad detto Bija e Mohammed al-Khoja, di cui quasi non si parla in Italia, ma che sono considerati a livello internazionale boss della mafia. I due, grazie anche agli accordi, hanno ruoli ufficiali nella gestione della guardia costiera e dei centri per i migranti, così come in partenze e respingimenti».
L’immigrazione dall’Africa si intensificherà nei prossimi anni?
«Oggi l’unico dato preciso disponibile riguarda gli arrivi, perché di molti naufragi non abbiamo notizia. Nel 2023 sappiamo di 2100 vittime, tra cui 300 bambini, ma purtroppo sono senz’altro di più. In questi giorni il centro di Lampedusa segna il record di arrivi, ma secondo i nostri contatti non sono molti i migranti che vogliono partire da Libia o Tunisia, dove sono giunti per lavorare. Tra alcuni anni però il flusso migratorio dall’Africa centrale sarà enorme per varie ragioni, tra cui l’emergenza climatica: il deserto avanza e le inondazioni aumentano. Chi vive là si sposterà, prima internamente e poi in Europa. Fintanto che l’economia del Nord del mondo si basa sullo sfruttamento, anche estrattivo, del Sud sarà inevitabile che sempre più persone partano per cercare condizioni di vita degne. Questo riguarda Europa, Stati Uniti e Australia. L’Occidente non vuole chi arriva dai luoghi che devasta. Per fare in modo che non ci siano migrazioni forzate, come le attuali, la dottrina sociale della Chiesa invita a cambiare sistema sociale ed economico. Molti sostengono sia impossibile, ma ci sono esempi edificanti in America Latina e in Africa. Tra il resto, da ricerche sociologiche recenti, sul grado di felicità di chi vive in Occidente, emerge una sofferenza altissima specie tra i giovani, che hanno sempre più bisogno nelle scuole dello sportello per la salute mentale: il nostro è un sistema difficile da reggere, basato su prestazioni continue e apparenza. Siamo convinti che la felicità arrivi dal soddisfacimento dei nostri bisogni, spesso indotti, invece viene dalle relazioni autentiche».
La nostra società può intervenire sul fenomeno migratorio?
«I cittadini si devono mobilitare riguardo le mafie che gestiscono i flussi dei migranti. La politica a volte compie scelte sbagliate anche per rispondere alle richieste della società. I politici seguono il consenso. L’arcivescovo Bruno Forte diceva che, una volta, i politici sapevano che era loro compito convincere della validità delle proprie idee. Oggi l’obiettivo è vincere, quindi il consenso facile. Per questo la politica è debole. Serve una mobilitazione forte della società che avviene quando le persone sono informate e consapevoli. L’accoglienza non è solo un affare dello Stato, non si ferma all’erogazione di servizi, ma ci riguarda tutti e chiama in causa l’incontro con l’altro e la costruzione di relazioni».