Golf
domenica 1 Ottobre, 2023
di Lorenzo Fabiano
La Ryder Cup a Roma, e tutti pazzi per il golf. Almeno per questo weekend, poi si vedrà quanto lontano andrà questo «drive». Ma se c’è un italiano che può raccontare quale sia la magia della grande sfida tra Stati Uniti e Europa alla quale ogni giocatore sogna un giorno di partecipare, questi non può che essere Costantino Rocca, il primo italiano a giocarla (tre volte nel 1993, 1995, 1997) e a vincerla (nel 1995 e 1997). Nel 1995 il suo stupefacente «Hole in One», pallina in buca in solo colpo da oltre 150 metri di distanza, fece il giro del mondo e due anni dopo il golfista bergamasco si concesse il lusso di battere nel confronto diretto nientemeno che Tiger Woods, il più forte di tutti, contribuendo così a dare la vittoria agli europei in entrambe quelle edizioni.
Rocca, lei è stato il primo italiano a giocare e vincere la Ryder Cup. Se siamo arrivati ad ospitarla per la prima volta in Italia, un po’ di merito va anche a lei per tutto quello che ha fatto per il golf italiano, non crede?
«Il presidente della federazione Chimenti l’ha voluta fortemente, è una cosa importantissima per l’Italia e per il nostro golf. È vero, sono stato il primo italiano a giocarla e a vincerla, ma fermiamoci lì e lasciamo perdere ste cosa dai…(ride, ndr)».
La Ryder verrà seguita da milioni di italiani. Vogliamo spiegare anche ai profani perché è una competizione tanto speciale?
«È una gara diversa da tutte le altre. Nei tornei individuali giochi uno contro l’altro, nella Ryder fai parte di una squadra. Ti fa provare momenti di adrenalina pura, ti entra dentro, ti innesca un qualcosa di particolare che ti fa sentire di dover dare il 200%. Se perdi, due anni dopo hai la rivincita. È un trofeo unico nel suo genere, bellissimo, al quale io ho sempre tenuto tantissimo».
Il suo «Hole in One» nel 1995 è parte della storia della Ryder Cup.
«Beh, diciamo che andare in buca in colpo solo è un po’ difficile…(altra risata, ndr)».
Anche battere Tiger Woods…
«Il più grande di tutti. Ero l’unico del Team Europe a non volerci giocare contro. Uno pensa “beh dai, se perdo dal numero uno al mondo non c’è nulla di male”. E invece io volevo vincere il confronto per dare il punto alla mia squadra. Ne ho avuti tanti, ma quello rimane uno dei momenti più belli della mia carriera. Badi bene che però anche i momenti brutti servono, perché ti fanno capire tante cose e ti aiutano a migliorare».
Domenica 23 luglio 1995, lei a braccia alzate inginocchiato sull’erba del santuario di St Andrews; quel «Birdie» da ottanta passi nello spareggio del British Open con John Daly rimane un’icona. L’americano poi vinse, ma ci rimase di sasso. Che le disse?
«Sì, quell’immagine rimarrà nella storia. Daly non mi disse nulla, era lì ad aspettare il mio colpo già pronto a festeggiare. Eravamo al playoff, purtroppo uno dei due doveva vincere e alla fine vinse lui. Devo dire che io non fui fortunato in un paio di colpi che risultarono decisivi».
Parliamo di golf: come si esce dallo stereotipo di sport elitario per soli ricchi?
«Un po’ di cose stanno cambiando, ma è difficile uscire dallo stereotipo “Sport per vecchi e ricchi”. Premesso che dovrebbe entrare nelle scuole, io dico che il golf andrebbe visto come traino a un turismo di qualità. Prenda il sud, avere più campi darebbe un bell’impulso al turismo nel meridione, dove abbiamo posti fantastici».
Questa Ryder a Roma può dare una bella spinta al movimento, quindi?
«Certo, ma non bastano questi tre giorni a Roma. Il golf ti deve portare a giocare in Sicilia, in Calabria, in Campania e in Puglia dove abbiamo posti stupendi. Lo fanno in Marocco, in Francia, in Spagna e in Portogallo, non riesco a capire perché da noi non si possa fare questo. Spero sia anche l’occasione per avvicinare i nostri ragazzi al golf: va benissimo dare la possibilità ai ragazzini di 12 o 13 anni di giocare, ma quando ne avranno 18 le quote, che basse non sono, se le dovranno pagare. Se dietro non hanno famiglie che li sostengono, diventa difficile. Anche in Inghilterra ci sono club esclusivi, ma esistono pure i campi pubblici nei quartieri dove paghi 10 sterline e ti fai le tue belle 18 buche».
Detto da lei che lavorava in fabbrica…
«Fino a vent’anni ho lavorato in una fabbrica di polistirolo. La mia fortuna è stata di nascere a 500 metri da un campo di golf, dove ho iniziato facendo il caddie».
Una storia bellissima, che ricorda certi film americani sul golf.
«Sì, è vero. Ne ho visti di molto belli che assomigliano alla mia storia. L’ho raccontata in un libro, la mia autobiografia uscita nel 2012».
Ho letto di una sua scommessa col grande Severiano Ballesteros…
«Ah sì…! Giocammo insieme in allenamento a una prova campo. Mi chiese di giocarci una bottiglia di vino. Vinsi io, ma la bottiglia non l’ho più riscossa. Ma va bene uguale, Seve era davvero un grande».
In Trentino è venuto a giocare?
«Certo! Sono stato a giocare al Golf Club Rendena e anche al Golf Club Madonna di Campiglio, posti stupendi, dove mi hanno sempre accolto benissimo. Quando avevo la mia associazione di beneficenza, al Rendena mi ospitavano al Pro-Am Tour: bei ricordi».
Matteo Manassero era l’astro nascente del golf italiano. Si è un po’ perso, ma sta ora dando segnali di ripresa. Lei come lo vede?
«Io dico solo che il mio primo torneo nel Tour l’ho vinto a 35 anni. Lui ne ha 30, quindi c’è tempo. Quando cadi in basso prendi delle belle bastonate, ma lui la voglia di risalire ce l’ha. La cosa che più conta è che lo lascino tranquillo e non gli rompano troppo le scatole. Speriamo bene».
Lei oggi di cosa si occupa?
«Faccio un po’ di Golf Clinic (stage di golf dove gli allievi hanno la possibilità di imparare o migliorare la loro abilità golfistica seguiti da un maestro, ndr), sono ambassador di un’associazione che si dedica ai bambini dell’Istituto Serafico di Assisi, a inizio settembre sono stato invitato a giocare nel Legends Tour all’Open di Francia e giocherò anche al Legend dell’Open d’Italia a fine ottobre. La verità è che col Covid mi è un po’ passata la voglia di giocare e di andare in giro. Poi, riprendere è dura».
«Lo scopo del golf non è solo vincere. È giocare come un gentiluomo, e vincere», ha detto un grande campione come Phil Mickelson. Lei che ne pensa?
«Eh sì, ma ogni tanto succede che in campo il gentiluomo lo lasci da parte. Lui è un tipo tranquillo, non l’ho mai visto incazzato una volta, però ci sono momenti in cui diciamo che diventi un po’ focoso. E noi italiani un bel po’ focosi lo siamo».
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