festa dello sport
sabato 14 Ottobre, 2023
di Alessio Kaisermann
«Ariedo Braida me lo aveva detto che indossando la maglia del Milan avrei potuto raggiungere il Pallone d’Oro. Così è stato». Applausi.
Applausi per Andriy Shevchenko che ha riempito l’auditorium Santa Chiara di Trento delle oltre 800 persone che può contenere e ne ha lasciate fuori dalla porta almeno un altro centinaio, speranzose che si liberasse un posto.
L’ex attaccante ucraino del Milan e non solo è sbarcato nel capoluogo per la prima volta al Festival dello Sport ed il popolo rossonero ha risposto come uno come «Sheva» merita. Ma ha saputo attirare apprezzamenti bipartisan quando ha raccontato della guerra nel suo Paese e del suo ruolo, di primo piano, «per tentare – ha detto – di salvare l’Ucraina dall’annientamento e per salvare il mio popolo». Applausi ancora.
Il suo gol più bello? Il rigore calciato a Manchester. Il frastuono del Santa Chiara quando è comparsa, alle spalle di Sheva, la foto di quel pallone calciato dagli 11 metri davanti «al Buffon» come ha detto lui attirando risate. «Quel gol valse la Champions league per il Milan – racconta – ma io ero felice due volte perché quel gol mi aveva permesso di entrare nella storia rossonera. Quello era il sogno più grande che avevo mai cullato e l’ho realizzato».
«Che gol che fa Sheva, Sheva». Il pubblico in sala intona cori da stadio e sul palco Alessandra Bocci gli chiede quale sia la sua qualità che lo ha fatto piacere così tanto ai suoi tifosi e anche agli altri, ai compagni e agli avversari. «Perché sono una persona umile, credo. I miei genitori mi hanno insegnato questo, rispetto per tutti». Andriy avrebbe già detto molto solo fin qui invece di cose da dire ce ne sono ancora molte.
Il suo arrivo in Italia, e il suo grazie alla «famiglia Milan» che lo ha coccolato. «Billy Costacurta – racconta – è stato fondamentale per farmi sentire subito a casa, per insegnarmi un po’ di italiano, per farmi capire come muovermi. È una gran persona».
Alessandro Alciato lo riporta alla guerra in Ucraina raccontando di un viaggio fatto assieme all’ex bomber rossonero in visita nel suo Paese martoriato. Gli chiede del ruolo che il presidente Zelensky gli ha affidato come alfiere di pace e di rinascita. Sheva sospira, guadagna qualche istante e poi «Scusate ma non riesco a parlare della guerra». Il battito di mani è un crescendo infinito. «Nel mio Paese 18.000 bimbi sono stati deportati, 500 sono stati uccisi, 3.000 feriti e alcuni anche violentati. Io ho chiesto al sindaco della città dove sono cresciuto di poter fare qualcosa per aiutare. Magari finanziare un ospedale. Mi è stato detto che se volevo aiutare davvero avrei potuto ricostruire lo stadio distrutto dai bombardamenti perché molti bimbi ci giocano comunque. In mezzo ai detriti». Ma quando si capisce che è arrivato il momento di smettere di giocare?
«Per ciascuno è diverso – ha spiegato Shevchenko – Lo capisci quando inizi a fare fatica. Io ho sofferto molto gli ultimi anni, mi capitavano spesso infortuni ma sono riuscito ad arrivare fino all’Europeo con la mia Ucraina e sono stato felicissimo. Non solo per aver giocato e lì concluso la mia carriera ma anche perché i miei figli hanno potuto vedermi giocare quando erano già sufficientemente grandi per poterselo ricordare per sempre». Applausi per l’umile Andriy Shevchenko.
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