l'intervista
giovedì 26 Ottobre, 2023
di Sara Alouani
Il 15 ottobre scorso ha rilasciato il nuovo album «Sasaland Vol.3», il terzo ed ultimo episodio di una serie che parla della sua vita tormentata dal disturbo bipolare. Samuel Saitta, in arte Sasa, dopo un’adolescenza molto difficile e travagliata, nel 2016, a 18 anni, ha finalmente ricevuto la diagnosi e da quel momento la musica è stata la sua unica ancora di salvezza. È proprio attraverso le sue barre che Sasa è riuscito a trovare una dimensione nel mondo, anche se, come la definisce lui, «controcorrente».
Sasa, come ha iniziato a rappare?
«Ho scritto il mio primo testo a 15 anni ma non avevo la minima idea di che cosa fosse il rap. Era un brano molto autocelebrativo, lo registrai con il cellulare e lo pubblicai sui social. Ricevetti un sacco di insulti e commenti negativi, quindi, mi allontanai da quel mondo».
Ha appeso il microfono al chiodo, diciamo. Come è rinata la passione?
«A 18 anni mi sono iscritto alla Scuola musicale di Rovereto che frequentavo nel mio doposcuola. C’era un corso di beatmaker e mi sono messo a fare basi musicale. Mi sono formato come producer più che come rapper».
Lei però ora canta anche?
«Si. Ed è stato grazie a Ciki Bam. Fu lui, dopo aver sentito i miei beat a darmi la carica giusta per sperimentare anche il rap. Mi disse che ero forte e che dovevo credere in me. Lui per primo ha creduto in me e mi ha insegnato moltissime tecniche per migliorare la parte cantata. È stato il mio mentore. Ho registrato la mia prima canzona, ‘Il mostro’, con il suo aiuto, mi diede delle linee guida da seguire».
Di che cosa parla la sua musica?
«Il mio stile è molto cupo. Sento il bisogno di raccontare la mia storia: soffro di depressione e mi è stato diagnosticato il bipolarismo. Ho un’invalidità riconosciuta e spesso ho attacchi di panico. Io parlo di questo».
Che cosa significa essere bipolare?
«Passo dall’essere felice all’essere triste e depresso molto velocemente e senza preavviso. È un problema che ti fa vedere la vita con occhi diversi dagli altri».
Quando ha scoperto di soffrire di questa patologia?
«Fin da quando ero piccolo ho fatto moltissime visite a causa dei miei sbalzi di umore. Avevo sempre problemi con i miei compagni, specialmente alle medie. Sono stato bullizzato ed emarginato, perché non riuscivo ad andare d’accordo con gli altri studenti. Poi, nel 2016 è arrivata la diagnosi di bipolarismo».
È arrivata un po’ tardi…
«Purtroppo, la depressione, come il bipolarismo, non vengono capite subito. Ed io faccio rap per dare voce a chi voce non ne ha. Vorrei che la gente si ritrovasse nei miei testi e vorrei arrivare alle persone che soffrono di queste patologie come affinché capiscano che si può superare il tabù e parlare di queste problematiche».
Teme di essere giudicato per la sua disabilità?
«Mio padre mi ha insegnato una cosa molto importante: dire le cose come stanno fin da subito e mostrarmi per quello che sono. Mi sono fatto le spalle larghe e non mi vergogno di quello che sono, anzi, penso di poter essere d’aiuto per altri».
La musica l’ha aiutata?
«Io ho trasformato il mio malessere in arte. È vero che il rap nasce da un disagio ma quel disagio non per forza deve essere economico o legato alla malavita. Io non posso dire di essere nato e cresciuto nella povertà, non ho vissuto la strada come altri artisti ma esistono altri fattori che mi hanno causato malessere e questi sono il bullismo subito, la mia depressione e il bipolarismo. La musica mi ha aiutato moltissimo a superarle. Non so dove sarei senza la musica, non posso immaginarlo…»
Quale è il suo messaggio?
«La vita è bella e troppo corta per realizzare i sogni degli altri. Se un giorno non volete uscire di casa, perché state male non uscite di casa. Siate liberi di essere quello che volete. Realizzate i vostri sogni anche se vi dicono che non siete capaci e vi riempiono di insulti. Credete sempre in quello che fate e fregatevene di quello che vi dice la gente».