la storia

sabato 4 Novembre, 2023

Un anno per arrivare in Italia attraversando l’Africa. La storia di Aboubakar Sow: «Il ricordo peggiore? La morte di mio fratello in Libia»

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Partito a soli 11 anni, oggi ne ha 20 ed è operaio in un’azienda di Lavis

Spesso si indaga sulle motivazioni che portano migliaia di persone ogni giorno a sfidare la morte per arrivare in Europa: guerre civili, povertà, fame, il nuovo sogno americano. Ma ci siamo mai chiesti quale sia il viaggio che ognuno di loro deve intraprendere? Il Mediterraneo è solo l’ultimo scoglio da superare e, forse, quello che noi conosciamo meglio, perché è anche l’elemento che condividiamo e che, in un certo senso, ci accomuna ma non è certamente il più pericoloso. A raccontarlo a «Il T» è Aboubakar Sow, 20 anni, oggi operaio metalmeccanico presso una ditta di Lavis, che con l’occasione lancia un appello per trovare casa, dopo essersi visto rifiutare decine di appartamenti in affitto perché di origine africana. Sow, infatti, è originario della Costa d’Avorio e proprio da lì è cominciato il suo viaggio, a soli 11 anni.
La vita in Africa
«Sono nato in Guinea da madre ivoriana e padre guineano e fino all’età di 7 anni ho vissuto insieme a loro in Guinea. Mia madre era commerciante e viaggiava in tutta l’Africa per vendere vestiti e stoffe, mio padre aveva 4 mogli ed io ho in totale 24 fratelli e sorelle, di cui 7 dalla stessa mamma. Frequentavo la scuola coranica ed ho imparato l’arabo come tutti i miei fratelli, finché un giorno i miei genitori non si sono separati ed io sono andato in Costa d’Avorio con mia madre. Per anni ho vissuto tra casa di mia zia, sua gemella, e casa di mio padre in Guinea, che viveva con le altre mogli. Facevo avanti e indietro da solo. Non ho mai frequentato le scuole pubbliche, in Africa non è nemmeno obbligatorio andarci».
Il tradimento, la decisione, il viaggio
«Ero in Guinea, ospite di mio padre e la sua seconda moglie e proprio lei una sera mi disse che mio padre aveva tradito mia madre con un’altra donna e per questo motivo si erano lasciati. Sul momento non ci ho creduto ed ho voluto indagare. Ricordo di aver chiamato mia madre al telefono, avevo meno di 10 anni, e lei, dopo numerose insistenze da parte mia, mi confermò il tradimento. La stessa sera affrontai mio padre faccia a faccia. Ero deluso ed arrabbiato, così sono tornato in Costa d’Avorio dove alcuni amici di mio fratello stavano progettando di andare in Europa. Ed è lì che ho deciso di andarmene, per dimenticare».
La partenza
«Sapevo che sarebbe stato pericoloso dai racconti di amici e conoscenti che erano arrivati fino in Libia e in Algeria e che erano tornati, ma avevo voglia di andarmene. Dopo la scoperta del tradimento di mio padre mi era caduto il mondo addosso. Ho sempre pensato che ognuno abbia il proprio destino segnato e, a quel punto, nulla poteva fermarmi.
Era un sabato sera di dicembre nel 2014, avevamo una festa in famiglia ed io ci andai insieme a mia zia. Spesso le dicevo che volevo partire ma lei lo prendeva sempre come uno scherzo. Quella sera, invece, ero determinato ed avevo organizzato la partenza insieme al gruppo di amici. Dopo la festa sono rientrato a casa per prendere lo zaino con due pantaloni, una felpa, un cappellino e me ne sono andato senza dire niente né a mia zia né a mia madre. Sapevo che altrimenti mi avrebbero impedito di partire. Con in mano passaporto ivoriano e carta d’identità guineana ho raggiunto il gruppo e siamo saliti sull’autobus. Tra i passeggeri c’era anche mio fratello maggiore Mohammad».
L’incontro con il fratello, l’inizio del viaggio
«Credevo si sarebbe arrabbiato e che mi avrebbe fatto scendere, invece, si è stupito e mi ha chiesto cosa ci facessi là. Gli ho risposto “vado dove vai tu”. Così, mi ha preso a fianco a sé e mi ha detto “va bene, andiamo insieme”. Da un lato, ero felicissimo di averlo trovato e di poter intraprendere questo viaggio con lui, dall’altro avevo paura di perderlo. Mohammad era una testa calda e temevo si sarebbe cacciato nei guai prima o poi».
Il deserto, l’Algeria, il rientro in Mali
«L’idea era quella di andare in Spagna da una delle mie sorellastre. Quindi, dovevamo arrivare prima in Marocco. La tratta fino al Niger è stata piuttosto tranquilla, siamo passati dal Mali e dal Senegal e l’autista avrebbe dovuto portarci fino in Algeria. Invece, arrivati alle porte del deserto in Niger ci ha fatti scendere dicendo che qualcun altro sarebbe arrivato a prenderci mentre noi avevamo pagato il viaggio per intero. Ci aveva mentito. Abbiamo atteso una settimana in strada, sopravvivendo grazie all’acqua e al cibo che gli abitanti del villaggio ci lanciavano dalle macchine. Poi è arrivato un trasportatore che ci ha caricati nel retro del camion, ci ha nascosti sotto a delle coperte e siamo partiti verso l’Algeria. Eravamo in 32. Alla frontiera siamo stati bloccati e rimandati in Mali. Nel tragitto di ritorno un ragazzo senegalese è morto, forse non ce la faceva più. Sai, non tutti hanno la stessa forza per affrontare un viaggio del genere. Lo abbiamo lasciato nel deserto, avvolto in una coperta. In queste situazioni non esistono sorelle o fratelli, bisogna pensare solo a se stessi».
Il Marocco
«Dal Mali è stato più semplice entrare in Algeria, anche se la macchina ci ha lasciati tutti e 31 a piedi nel cuore della notte a chilometri dalla città di Aoulef. L’autista ci aveva dato delle indicazioni approssimative che dovevamo ricordare a memoria, da lì in poi dovevamo cavarcela da soli. Con noi c’erano 5 donne e 3 bambini più piccoli di me. Abbiamo trascorso due settimane in un campo per migranti, poi ci siamo spostati in Marocco con un autobus che ci ha portati a Nador, al confine con la Spagna. Qui c’è un enorme campo nella foresta, costruito e gestito da africani e noi per un mese siamo rimasti lì, in attesa, come tutti, di un buon momento per varcare le barriere che ci dividevano da Melilla».
Il sogno spagnolo svanito
«Così, una notte, io, mio fratello e alcuni amici abbiamo tentato di superare le recinzioni di filo spinato. Saranno state alte 10 metri e per arrampicarsi bisognava avvolgere le mani nelle magliette, altrimenti ci si faceva male. Erano quattro, disposte una davanti all’altra. Finita una, bisognava superare l’altra e per ogni barriera c’era la polizia che ti bloccava. I più grandi riuscirono ad attraversare la prima, io, a 12 anni, rimasi indietro. Non riuscivo ad arrampicarmi ed avevo tanta paura. Ricordo che mi misi a piangere e mio fratello decise di tronare indietro per me e i suoi amici lo seguirono. A quel punto, l’unica opzione rimasta era la Libia».
La Libia
«Ci siamo arrivati con due auto ed è stato un vero casino. A Tripoli i ribelli ci fermarono e ci portarono in prigione dove ci chiesero di chiamare le nostre famiglie per pagare dei soldi. Lì fu la prima volta che chiamai mia madre. C’erano tantissimi africani, chi veniva torturato, chi aveva trovato un modo per sopravvivere facendo lo schiavo dei libici e poi c’eravamo noi, in un limbo. Un giorno mio fratello Mohamed fece a botte con un nigeriano e la lite coinvolse una guardia libica, Youssef, la stessa che la sera dopo entrò in cella e uccise mio fratello a bastonate davanti ai miei occhi. Morì dissanguato dopo tre giorni di agonia. Era il 4 ottobre 2016 ed era anche il giorno del suo compleanno. Ingenuamente, avevo chiesto di portarlo in ospedale ma le guardie mi risero in faccia. Mia madre diceva sempre che Mohamed doveva “abbassare il cuore”, essere meno gradasso, dentro di me sapevo che il suo carattere spavaldo lo avrebbe tradito prima o poi. Mi sembra ieri quando ricordo come è morto mio fratello».
La fuga, il mare, l’Italia
«Una notte fuggimmo dalla prigione ed un ragazzo del Niger morì trafitto da una pallottola alla pancia mentre scappavamo. Per alcune ore ci rifugiammo nel cimitero, lontano dalle guardie e lontano dagli occhi degli abitanti. Sarebbe stato troppo pericoloso proseguire. Arrivati a Sabrata, qualche giorno dopo, abbiamo atteso di imbarcarci per oltre un mese, finché, a fine dicembre, non ci chiamarono per salire sul gommone. Era buio pesto in mezzo al mare e il GPS ad un certo punto ha smesso di funzionare. Ricordo la gente che piangeva e il tizio al comando che diceva che ci eravamo persi. Era un migrante come noi, del Senegal, al quale avevano insegnato come guidare a voce, a segni. Un amico di mio fratello mi disse di pregare perché ormai l’acqua entrava dai lati del gommone. Io, invece, ridevo: dopo la morte di Mohamed nulla mi spaventava più, anzi, morire sarebbe stato un sollievo. All’alba un elicottero della guardia costiera volò sopra di noi e, subito dopo, una barca gigante si stava avvicinando. Ci hanno salvati e ci hanno portati a Lampedusa. Quella notte 2 delle 240 persone a bordo morirono».