L'intervista
mercoledì 13 Dicembre, 2023
di Mattia Pelli
Patrick Zaki ha pagato con due anni di carcere in Egitto l’affronto di aver scritto un articolo in cui raccontava una settimana nella vita dei cristiani copti egiziani, una minoranza religiosa da cui proviene la sua famiglia, che rappresenta un decimo della popolazione del Paese ed è sottoposta a continue discriminazioni. Non c’è dimostrazione più efficace della necessità di una battaglia per la salvaguardia della libertà accademica, alla quale l’Università di Trento ha da tempo dato la propria adesione, insieme a tante altre accademie, in Italia e nel mondo.
«Scholars at Risk» (Sar) è una rete internazionale di università fondata nel 1999 per promuovere il diritto a scrivere e a ricercare in libertà e per proteggere studiosi e studiose in pericolo di vita, o il cui lavoro è seriamente compromesso. Trento – tramite la delegata del rettore alla solidarietà accademica e internazionale Ester Gallo – ha aderito nel 2017 a questa rete e fin da subito ha sottoscritto la mozione dell’Università di Bologna che chiedeva la liberazione del giovane studente egiziano.
Arrestato il 7 febbraio 2020, Patrick Zaki era di ritorno in Egitto per una visita ai parenti da Bologna, dove studiava Letterature moderne comparate postcoloniali: da quel giorno e fino all’8 dicembre 2021 ha conosciuto la durezza delle carceri del suo Paese, che attualmente ospitano ben 60mila prigionieri politici.
Ora l’attivista egiziano ha deciso di raccontare la sua storia in un volume uscito da poco e intitolato «Sogni e illusioni di libertà. La mia storia», per La Nave di Teseo e venerdì 15 dicembre sarà a Trento (ore 9.15, Aula 2 di Sociologia) per parlare proprio di libertà accademica nei Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente, invitato dall’Università in collaborazione con «Scholars at Risk» e l’Università di Padova.
All’incontro, aperto anche alla cittadinanza, parteciperanno tre classi quinte del Liceo linguistico Sophie Scholl, coinvolte in un progetto di riflessione sul valore della libertà accademica.
«Sono davvero contento di essere di nuovo in Italia – ci confida Patrick Zaki – e non vedo l’ora di visitare Trento».
Lei ha pagato con la prigione per un articolo accademico. Pensa che la libertà accademica sia più rispettata nei Paesi occidentali?
«Non c’è dubbio che la situazione sia migliore nei Paesi europei. Sappiamo che in Egitto c’è molta censura e sappiamo anche che nelle università ci sono delle linee rosse che non vanno superate, perché le accademie sono sotto scrutinio da parte dello Stato. Nel mio Paese non esiste un sindacato studentesco da otto anni e non c’è una vera rappresentanza della voce degli studenti nelle università. Non è, dunque, possibile in queste condizioni parlare di libertà accademica. Vorrei che un giorno la libertà di ricerca nel mio Paese arrivasse a un punto in cui tutti possono esprimersi, lavorare e fare ricerca su ciò che vogliono».
La prigione è sempre un’esperienza dura, ma per un intellettuale lo è forse ancora di più. Ne parlerà venerdì a Trento?
«C’è una cosa che vorrei raccontare di quei due anni, che per me è stata tremenda. Sono stato rinchiuso in una piccola cella per 23 ore al giorno. Ogni giorno. Sapevo che fuori da quelle quattro mura c’erano i miei genitori che non avevano idea di come aiutare il loro figlio. C’era la mia ragazza in una situazione orribile, che non sapeva cosa fare. Quando mi hanno fermato all’aeroporto ho subito capito che sarei stato imprigionato e che sarei stato in carcere per molto tempo, perché sono esperto in diritti umani e conoscevo molti casi di attivisti che hanno vissuto la stessa esperienza. Questa consapevolezza è stata molto dura da affrontare».
Ci sono ancora numerosi prigionieri politici nelle carceri egiziane?
«Sì, e vorrei citare il caso di una delle persone che più apprezzo, Alaa Abd El-Fattah. Lo considero un po’ il mio mentore ed è in prigione da dieci anni perché ha presieduto alcune iniziative in difesa dei diritti umani. Mi auguro che possa essere rilasciato presto. Ho sempre chiesto la sua libertà e continuerò a farlo».
Lei ha recentemente preso posizione sul conflitto tra Israele e Hamas a Gaza, scatenando grandi polemiche. Crede che il conflitto a Gaza allontanerà ulteriormente i Paesi arabi dall’Occidente?
«A dire il vero, se parliamo di governi non credo che questi possano smettere di trattare con l’Occidente. Ma se si parla delle popolazioni dei Paesi arabi, penso che queste non credano più agli slogan dei Paesi occidentali, che dicono di essere i difensori dei diritti umani e della democrazia. I Paesi occidentali non hanno detto la verità, considerando quello che sta succedendo a Gaza. Perché non hanno condannato l’uccisione dei civili palestinesi innocenti come hanno fatto per quelli israeliani?»
Lei è un difensore dei diritti civili. Israele giustifica la sua offensiva militare su Gaza anche con la difesa di diritti che non vengono rispettati nei Paesi islamici: quelli delle donne e della comunità Lgbtq, per esempio. Cosa ne pensa?
«È una argomentazione davvero ridicola: Israele stesso non ha riconosciuto i diritti della comunità Lgbtq e si è opposto ai matrimoni gay e a tutte le forme di rappresentanza delle minoranze di genere. Si tratta solo di una argomentazione utile a far sì che più persone siano dalla sua parte. Si tratta semplicemente di propaganda».
Con la guerra a Gaza pare esserci una recrudescenza di sentimenti anti-arabi e anti-musulmani in Occidente. Israele giustifica il suo intervento militare parlando di una guerra contro la barbarie a nome di tutto l’Occidente. Cosa ne pensa?
«La crescente islamofobia e l’odio contro gli arabi sono piuttosto preoccupanti. L’abbiamo già vista in passato con la “guerra al terrore” degli Usa, l’abbiamo vista in Iraq, in Vietnam e in Afghanistan e ha sempre un costo altissimo per i civili. È ironico che coloro che vedono i bambini palestinesi uccisi ogni giorno e si oppongono a un cessate il fuoco chiamino gli arabi barbari. Sono scioccato nel vedere molte persone in Occidente ancora ferme a ciò che è accaduto il sette ottobre in Israele, ignorando volutamente ciò che è accaduto prima e dopo al popolo palestinese. Quando gli Stati rifiutano pubblicamente un cessate il fuoco umanitario per proteggere i civili palestinesi, l’islamofobia e i sentimenti anti-arabi aumentano, perché questo manda un messaggio di disumanizzazione e un via libera a commettere violenza contro di loro senza doverne affrontare le conseguenze».
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