Il lutto
domenica 17 Dicembre, 2023
di Paolo Morando
Filosofo, politologo, intellettuale riconosciuto a livello mondiale. Comunista, soprattutto. E “cattivo maestro”, come prontamente è tornato a definirlo il ministro della cultura Sangiuliano, rispolverando l’etichetta cucitagli addosso quasi mezzo secolo fa. Toni Negri è morto l’altra notte novantenne a Parigi, dove aveva trovato riparo già nel 1983, dopo l’arresto quattro anni prima nella grande retata del 7 aprile (l’inchiesta del pm padovano Pietro Calogero) che aveva decapitato Autonomia Operaia. Raccontare oggi la sua figura significa attraversare la storia di un’Italia che non c’è più da tempo, in cui la violenza come prassi rivoluzionaria era pane quotidiano nel pensiero prima ancora che nell’azione. E qui si può solo andare per cenni, considerando che l’autobiografia dello stesso Negri si compone in tre tomi (Storia di un comunista, Galera ed esilio e Da Genova a domani, pubblicati da Ponte alle Grazie tra il 2015 e il 2020) per circa 1.500 pagine: il racconto di un’epoca da parte chi l’ha attraversata e a suo modo forgiata, nel bene e nel male.
Padovano, a due anni orfano di padre, un fratello morto sul fronte orientale con la divisa dell’esercito di Salò, Antonio Negri si affacciò alla politica negli anni Cinquanta come dirigente dell’Azione Cattolica (nel frattempo la sua laurea in filosofia era stata pubblicata da Feltrinelli), per poi militare nel Partito socialista. Qui incrociò il pensiero dell’operaismo, che lo portò a fondare nel 1967 Potere Operaio, in totale rottura con la sinistra istituzionale. Furono però gli anni Settanta quelli in cui il pensiero di Negri, divenuto accademico di rango (e il più giovane professore ordinario della storia italiana), divenne dirompente: chiusa l’esperienza di PotOp, nel 1973 assieme ad altre figure di rilievo come Franco Piperno e Oreste Scalzone diede vita ad Autonomia Operaia, il principale movimento della sinistra extraparlamentare di allora. E la contrapposizione con il Pci, avviato verso i governi della “non sfiducia” e della “solidarietà nazionale”, ispirati da Moro, si fece durissima. Come la sfida della lotta armata.
La magistratura padovana ipotizzò che l’area dell’Autonomia rappresentasse il volto legale di una più complessa organizzazione occulta collegata alle Brigate rosse: di qui nel 1979 l’operazione “7 aprile”. A Negri, indicato come il cervello delle Br (con le quali a livello dottrinario era invece da tempo in polemica), venne addirittura attribuita una telefonata fatta dai terroristi che tenevano in ostaggio Moro alla famiglia della statista. Arrestato e accusato di insurrezione armata contro i poteri dello Stato, Negri tornò libero in quanto eletto deputato nel giugno del 1983, candidato dal Partito radicale come simbolo dell’opposizione alle leggi speciali antiterrorismo. Alla vigilia del voto a Montecitorio sull’autorizzazione a procedere nei suoi confronti, fuggì via mare in Francia, tecnicamente latitante sotto l’ombrello della cosiddetta dottrina Mitterrand.
Là continuò a insegnare in più istituzioni universitarie. E soprattutto a scrivere: alcuni suoi lavori, soprattutto quelli dei primi anni Duemila (in particolare Impero e Moltitudine), conobbero risonanza internazionale. A sorpresa nel 1997 era tornato in Italia, per terminare di scontare i dodici anni che alla fine, in appello, gli erano stati comminati per associazione sovversiva e concorso morale in una rapina in cui aveva perso la vita un carabiniere (in primo grado la pena complessiva era stata di trent’anni, poi le accuse più gravi caddero): parte li aveva peraltro già scontati prima dell’elezione. Nella primavera del 2003, dopo alcuni anni prima a Rebibbia e poi in regime di semilibertà, terminò di saldare il conto con la giustizia.
Una curiosità: nel primo volume dell’autobiografia, Negri racconta anche di un ferragosto a Castello Tesino, adolescente in vacanza. «Ci sono le giostre nella piazza del borgo. Il Martorello è il ragazzino più forte del paese, di una famiglia violenta – di malviventi si sussurra. Durante la guerra, in quel villaggio dove la lotta partigiana fu tragica, quella famiglia si è mal comportata. Amici dei tedeschi? Non si sa bene. Il Martorello mi incrocia. Sono appena arrivato dalla città. Per inorgoglire davanti alla sua banda, mi insulta: “faccia di puina”. Faccia di ricotta, bianchiccia, di uomo da niente! Gli salto addosso: ci scambiamo un sacco di pugni. Nella rissa scivoliamo sotto una giostra che gira, abbracciati. Arriva Luciano, il fidanzato di mia sorella, che è del paese: fa fermare la giostra. Ci tirano fuori, sanguiniamo entrambi. Ci dividono. Ammaccati e ancora furenti continuiamo a lanciarci ingiurie. Luciano mi trascina via, mi chiede cosa sia successo, mi dice di stare attento: quello lì sa usare il coltello. Ma io non lo ascolto: sono pesto di botte, ma ho dato prova di saper lottare, e anche di farcela – anche se sono il più debole».