L'INTERVISTA

giovedì 28 Dicembre, 2023

Omicidi e misteri, Carlo Lucarelli tra schermo e libri: «Con Blu Notte abbiamo cambiato il racconto tv»

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Scrittore e autore, ideatore del programma di grande successo che andò in onda dal 1998 al 2012, prima su Raidue e poi su Raitre. Ora è alle prese con un nuovo romanzo: «Sarà qualcosa di doloroso»

Sta scrivendo un nuovo romanzo, ma sarà qualcosa di molto diverso dai precedenti: non ci saranno infatti i personaggi che i suoi lettori conoscono bene, come il commissario De Luca o l’ispettore Coliandro. Ma sarà comunque una storia d’investigazione: la vicenda di un uomo che si ritrova in una situazione davvero particolare. «Non ne so ancora molto, ma vorrei che fosse un romanzo doloroso e cattivissimo. Ho scritto libri in cui in due o tre momenti, a scriverli e leggerli, si sta male: ecco, vorrei riproporre quelle sensazioni lì più estesamente».
Carlo Lucarelli ha concluso un mese fa la settimana di «Politicamente scorretto», che ha curato a Casalecchio: una serie di incontri su mafia, stragi politiche e quant’altro. Ma dal piccolo schermo manca da un po’, dopo aver rivoluzionato con «Blu Notte» gli schemi della narrazione televisiva di gialli e misteri italiani. Un programma di grande successo (andò in onda dal 1998 al 2012, prima su Raidue e poi su Raitre) e che ha fatto storia, «figliando» suo malgrado molti imitatori: anche in chiave grottesca, come il Lucarelli di Fabio De Luigi e il suo «paura, eh?». Oggi che la cronaca nera e la sua narrazione in tv esondano ovunque, Lucarelli assiste un po’ perplesso.
Perché «Blu Notte» ebbe quel grande successo?
«Forse perché si trattava di una narrazione svolta da uno scrittore, il che non significa che se a farla è un giornalista è peggio. Però era un racconto diverso, che mancava. Fino ad allora la cronaca veniva raccontata in tv con lo stile della vecchia cronaca nera, ed era un bel modo, oppure con aspetti “noir” quasi splatter, pornografici in senso lato. Quando siamo arrivati noi di “Blu Notte”, abbiamo utilizzato la tecnica del giallo, che era coinvolgente. E poi ci occupavamo di casi vecchi, avevamo il tempo di cercare materiali, ad esempio le autopsie. E di ragionarci sopra. Avevamo un passo diverso rispetto ad altri programmi di taglio giornalistico. Non bastava dire che la ragazza era stata uccisa a coltellate, la cosa andava sceneggiata: serviva sapere quante volte era stata colpita, che l’assassino aveva alzato il braccio, che la vittima aveva abbassato la testa…».
Per poter passare dal linguaggio del verbale a quello televisivo.
«Esatto. Quindi era importante contare le coltellate. E avere un medico legale che ne spiegasse l’effetto. Ma al tempo stesso, il nostro taglio letterario era preciso e rispettoso. Perché quando racconti questa storie, specie se si tratta di casi irrisolti, ti devi concentrare su qualcos’altro. Nel nostro caso, la vittima. E quindi sull’aspetto umano».
Poi siete passati ai misteri d’Italia.
«Ma abbiamo applicato lo stesso metodo. E la cosa ha funzionato, perché tutti hanno sentito parlare di Aldo Moro e di Piazza Fontana, di Bologna o di Ustica. Ma a tutti mancano molti elementi di conoscenza».
C’è ancora chi ritiene che le stragi siano state opera delle Brigate rosse.
«Infatti. Una delle cose che ha funzionato è stato poi il tipo di racconto, indipendentemente dal numero delle vittime. Dipende dai dettagli. E il nostro sforzo è stato sempre quello di chiederci perché un dettaglio andasse raccontato o meno. Ci insegnò molto il caso di Pizzolungo».
La strage a cui scampò il giudice trentino Carlo Palermo.
«Ma morirono due bambini. Una volta facemmo una puntata sulla mafia, con un elenco di giudici uccisi: non citammo Palermo, me ne ero dimenticato proprio perché era sopravvissuto. Poi un giorno incontrai la sorella di quei due bambini. Che mi disse: il giudice si salvò, ma i miei fratellini sono morti. E così raccontammo quella storia, spiegando che i due bambini in auto vennero dilaniati e che il volto di uno di loro finì sopra una casa. Così il pubblico non lo avrebbe mai dimenticato. Altrimenti non c’era ragione per raccontare un dettaglio così macabro. Se lo fai, deve esserci un perché».
Oggi la Rai appare in crisi: i grandi nomi che se ne vanno, percentuali d’ascolto fallimentari. Che ne pensa?
«La maggior parte della tv che guardo la vedo su “Blob”. Non per snobismo: il calcio non l’ho mai seguito, l’intrattenimento pure, guardo soprattutto documentari. Mentre i talk show mi sembrano sempre meno approfonditi, sempre più entertainment e non informazione».
Ritiene anche lei che la Rai stia abdicando al proprio ruolo di principale agenzia di produzione culturale del Paese?
«I programmi innovativi sono sempre meno rispetto a una volta. Ho nostalgia dei Joe Marrazzo e dei Zavoli, dei loro programmi con cui sono cresciuto, del loro coraggio. Ma è anche un problema di autocensura. E lo è sempre più».
Vale a dire?
«L’aver paura di conseguenze a seconda di ciò che si dice in tv. La Rai non è un editore puro, ha a che fare con la politica. Certo, sulla base del pluralismo. Sta di fatto che chi fa televisione vive perennemente con il timore di che cosa penserà la politica una volta vista la trasmissione».
È capitato anche a lei?
«Non ci siamo mai autocensurati. Ma quel pensiero c’era. Erano gli anni Duemila, pieno periodo berlusconiano, quando il conflitto d’interesse era all’ordine del giorno: parlavamo di Berlusconi o dei suoi amici una puntata sì e l’altra pure».
Rimostranze il giorno dopo? Querele?
«Pochissime, rispetto ad altri programmi più investigativi, perché eravamo molto cauti. Una, assurda, arrivò da Giovanni Brusca, perché gli avevamo attribuito un tentato omicidio che non era suo. Più che altro arrivavano avvertimenti di querele, dalle varie associazioni di militari legati a Gladio o Ustica: chiamavano i loro portavoce, ci dicevano “bravi, pensiamo di querelarvi”, poi però non lo facevano. E al massimo la Rai non replicava quella puntata. Che però nel frattempo era già andata in onda, senza censure».
Mai saltata nessuna puntata?
«Un paio di volte non siamo andati in onda per questioni di par condicio, perché parlavamo di mafia e politica, e vabbè. In un caso però accade qualcosa di curioso».
Sentiamo.
«Era ancora una puntata su mafia e politica, parlavamo del processo Dell’Utri, di Cuffaro, di Andreotti. L’abbiamo fatta con tutte le cautele possibili e ci siamo detti: chissà che cosa diranno domani. Invece non ci ha filato nessuno. Solo qualche settimana dopo, un senatore di Forza Italia parlò di programma fazioso, ma la polemica finì lì. La politica è un muro di gomma: non c’è più bisogno di querelare, o di mettere una bomba. Non serve più fare nulla: basta stare zitti una settimana e tutto passa».