Basket, l'intervista
domenica 31 Dicembre, 2023
di Lorenzo Fabiano
Lineare, come la sua pallacanestro, la logica come pensiero guida, Bogdan «Boscia» Tanjevic è «l’allenatore», dove l’articolo fa tutta la differenza del mondo: ha vinto in mezza Europa, almeno in quella che sotto canestro conta davvero, ha condotto la squadra della sua città, Sarajevo, alla conquista del tetto d’Europa, primo club jugoslavo a riuscirci, ha guidato l’allora nazionale jugoslava all’argento europeo, quella italiana all’oro, ha esibito il suo basket sui parquet più prestigiosi, ma soprattutto è stato un formidabile scopritore di talenti, da Mirza Delibašić a Dejan Bodiroga e Ferdinando Gentile solo per citarne tre, un uomo di virtute e canoscenza che fedele ai suoi principi ha sempre creduto nei giovani e che alla faccia dei suoi 76 anni è, e sarà sempre, giovane. Ecco perché, in un mondo dove non si ascolta più nessuno, le parole del saggio Boscia sono una lezione d vita.
Tanjevic, partiamo da una delle sue massime, «fare il bene a fondo perduto». Detta così, sembra un augurio per l’anno che sta per arrivare, ma il mondo pare essere sordo. Lei che dice?
«Aiutare chi ha bisogno senza pretendere nulla in cambio. È tutta la vita che la penso così. Guardi a che punto siamo arrivati, abbiamo due guerre, il male è dominante ed è una vergogna per il mondo intero. Siamo sotto il dominio della vendetta e dell’odio».
Lei ha sempre detto che la disgregazione della Jugoslavia è il suo più grande dolore. Sono passati trent’anni, non le pare che quella tragedia non abbia insegnato nulla?
«Una vergogna, la dispersione di tutto; dei truffatori hanno venduto nazionalismo ai poveretti. E pensare che noi facevamo battute sui nazionalisti. La nostra sconfitta sta nel seme dell’odio che dura da trent’anni e durerà ancora, perché siamo solo al primo tempo. I giovani sono cresciuti in quell’odio, il pericolo maggiore è questo, e non se ne vede la fine».
Sarajevo, la sua città, il simbolo di quel martirio.
«Sono cresciuto a Sarajevo, una città universale, un mosaico di culture; la sua bellezza era il multicolore, ma oggi tutti quei colori mancano. Quarant’anni fa ospitammo le olimpiadi, il simbolo dell’amicizia tra popoli, in soli sette anni dei malviventi ne hanno fatto un simbolo della distruzione».
E alla guida del Bosna Sarajevo nel 1979 a Grenoble il giovane Tanjevic alzò la prima Coppa dei Campioni del basket jugoslavo. Che impresa…
«Battemmo in finale Varese, che era sempre stata la mia squadra ideale. Avevo sempre sognato di giocare alla pari con loro, mentre in America la mia squadra ideale erano i Boston Celtics. Ma io ero anche un grande tifoso dell’Ajax e di Johan Cruijff: lui era così grande avrebbe potuto giocare anche a pallacanestro nel nostro quintetto al Bosna. Ero uno slavo che tifava Olanda e soffrii tantissimo quando l’Olanda, che aveva portato la modernità, perse la finale dei mondiali del 1974 contro i tedeschi».
La stella di quella squadra era Mirza Delibašić, come un figlio per lei.
«Meglio dire che mi sentivo suo fratello maggiore. Un fuoriclasse e un grande altruista che giocava e segnava per la squadra e non per marcare punti sul suo personale tabellino. Quando scoppiò la guerra, lui non stava bene, lo tenni con me a Trieste un anno e mezzo. Trovammo un appartamento per lui e la sua famiglia, ma poi volle tornare a Sarajevo».
Caserta: la serie “Scugnizzi per sempre” ha avuto un grande successo. Che emozione è stata per lei?
«Pensi che ancora io la serie completa non l’ho vista. Ma lo farò presto, perché me la voglio vedere tutta di fila. Ho appena sentito Oscar Schmidt per gli auguri di Natale, sono molto legato a Caserta e un pezzo del mio cuore è rimasto lì».
Nel 1999 il trionfo agli europei con l’Italia. Cosa aveva in più quella squadra?
«Un allenatore con le idee chiare sul modo di giocare e sui rapporti all’interno del gruppo. In quattro anni abbiamo vinto l’80% delle partite e ci siamo tolti dalla spalla la scimmia della Jugoslavia. Ora le parti si sono invertite, ed è la Serbia ad avere sulla spalla la scimmia dell’Italia. Il nostro era un gruppo senza complessi, convinto di poter battere chiunque».
Nel calcio sta nascendo la Superlega più o meno sul modello dell’Eurolega del basket: lei che ne pensa?
«Io sto con Fiba e Uefa, che hanno regole chiare. Il professionismo esasperato non mi piace. È importante salvaguardare la base, i campionati nazionali. Questi signori del calcio pensano solo a far soldi, ma sono tutti indebitati. Mi starebbe bene se applicassero il modello Nba, dove spendi quello che incassi e non di più, e rispetti il salary cap senza andare in rosso. Mi devono spiegare dove sta la sostenibilità se un club spende 45 e incassa 15 come ha fatto il Real Madrid per tre/quattro anni quando ha dichiarato una perdita di 29 milioni e 500mila euro. A me così non sta bene».
Il campionato italiano di basket perde attrattiva. Da dove ripartire per un rilancio?
«Già quattro stranieri son troppi, figuriamoci se non hai limiti. Ne basterebbero due come una volta. Con due stranieri le squadre italiane vincevano in Europa: Milano, Varese, Cantù, Bologna: l’ossatura di quelle squadre era fatta da giocatori italiani. Senza limiti agli stranieri, quanti titoli hanno portato a casa le squadre italiani negli ultimi vent’anni…? Non credo che gli altri imbottiti di stranieri sarebbero più forti. Basta credere nei giovani, ma i giovani hanno bisogno di giocare: prenda Fontecchio, abbiamo scoperto che è forte a 27 anni; oppure Della valle, il migliore dei ventenni che ha subito questa mentalità: ma di che parliamo?».
A Trento il progetto dell’Academy lo guida un suo amico, Marco Crespi…
«Non potrebbe essere in mani migliori, Marco è uno dei più grandi allenatori italiani. Bene ci siano progetti così, perché i grandi club danno poca importanza al settore giovanile. Ma Trento è un posto particolare, una bellissima città dove si vive benissimo, la gente s’incontra ancora a fare due chiacchiere in strada, la qualità della vita è alta. Una città per i giovani, una bella immagine per l’Italia».
La pallacanestro di Boscia Tanjevic?
«Con più intensità hai più chance di poter vincere qualcosa. Il mio basket è la logica della vita: i giocatori li rispetti e li tieni in considerazione, se gli dimostri di volergli bene, loro vogliono bene a te e giocano anche per te. Io ai miei giocatori voglio bene e li proteggo. In 46 anni ai miei ragazzi non ho mai detto che una squadra che avremmo dovuto affrontare fosse più forte di noi. Gli avrei mancato di rispetto. Quando con Caserta dall’A2 fummo promossi in A1 e accedemmo ai playoff dissi che l’obiettivo sarebbe stato ora lo scudetto. Si misero a ridere, mi presero per matto ma erano tutti contenti».
Ha smesso di allenare nel 2017; cosa potrebbe farle cambiare idea?
«Sarei disposto a tornare purché mi facessero allenare in collegamento da casa su un grande schermo in palestra. Li farei correre e sono sicuro potrei fare ancora un gran bel lavoro. Se c’è un presidente disposto a pagarmi per un lavoro fatto così, io ci sono. Ma da casa, con le nuove tecnologie, e niente viaggi».