L'intervista
domenica 31 Dicembre, 2023
di Stefano Marini
Maso Remitel, una piccola impresa di allevamento e caseificazione a Pez, frazione di Tre Ville. A gestirla col marito Enrico è Laura Masciocchi, di Varese, che ha trovato nelle Giudicarie lo spazio per costruire il proprio progetto di vita ma anche la sua dimensione professionale, offrendo prodotti di qualità derivanti dalla cura di un gregge di capre. Una storia che mostra come le Giudicarie possano essere attrattive grazie all’elevata qualità della vita che possono offrire.
Come nasce la sua passione per la montagna e l’allevamento?
«Ho iniziato frequentando la facoltà di scienze alimentari a Milano, ho svolto un tirocinio in Asl e, prima della laurea, ne ho fatto un altro in malga, a Verbania. Ero partita con l’idea di prendermi un po’ di tempo per girare l’Italia lavorando, ma quando sono stata in malga mi si è aperto un mondo e ho capito cosa volevo fare da grande. A quel punto ho cercato di approfondire gli aspetti più pratici iscrivendomi all’università dei mestieri a Cuneo, dove ho appreso l’arte della caseificazione».
Come è arrivata in Trentino?
«All’università dei mestieri ho conosciuto mio marito, Enrico Leonardi. Enrico era diplomato perito agrario a San Michele e aveva già tanta esperienza perché aveva iniziato a lavorare da giovanissimo nel settore dell’allevamento e aveva già un suo primo gregge, composto da nove capre e un becco. Io invece avevo più competenze teorico-scientifiche. Dopo esserci specializzati sono venuta in Trentino con lui a fare la mia prima stagione, a malga Stabol-Fresco, sopra Roncone. Quando siamo scesi abbiamo riflettuto su cosa fare e abbiamo deciso di restare a Pez, dove Enrico aveva il suo gregge, e di vedere se riuscivamo a far stare in piedi un’attività. Abbiamo allestito un piccolo caseificio e presto ci siamo trovati ad aumentare il numero delle capre perché il lavoro andava bene. Abbiamo quindi comperato un terreno e costruito una stalla per 80 capre, salite poi a 100, con anche qualche pecora. Infine siamo arrivati ad aprire Maso Remitel, chiamato così perché il soprannome degli abitanti di Ragoli è “Remitei”. Nel mentre ci siamo anche sposati e sono arrivati tre bambini. Di recente abbiamo anche preso in gestione malga Stabio nel comune catastale di Saone che era inutilizzata da circa cinquant’anni. Siamo a 1400 metri di altezza ma nonostante questo vediamo che la gente sale volentieri anche a piedi a prendere il formaggio».
Ha avuto qualche choc venendo ad abitare in Trentino?
«All’inizio è stata un po’ dura. In inverno a Pez manca il sole e mi pesava la mancanza di luce. Ora che sono qui da più di 15 anni mi piace tantissimo questo clima. Anche vedere meno gente è stato pesante, ma è passato anche questo: i rapporti umani sono meno numerosi ma più profondi. Mi piace la vita di montagna, il silenzio, sebbene coi bambini sia un po’ diminuito, la fatica, lo stare a contatto con la natura. A distanza di tanti anni non tornerei a vivere in Lombardia».
Che prodotti offre il maso?
«Soprattutto formaggio, ricotta, yogurt, salumi, anche affumicati, e carne salata. Tutto o quasi a base di capra. Facciamo pochi prodotti ma di qualità. I nostri sono prodotti di nicchia, che principalmente vendiamo al dettaglio. L’impostazione funziona e per fortuna il lavoro non ci manca».
Non saranno state tutte rose e fiori. Quali sono le difficoltà principali nel vostro lavoro?
«Si dice che c’è stato un riavvicinamento alla pastorizia da parte dei giovani. Sarà anche vero ma per quanto posso vedere sono scappati quasi tutti, perché è un lavoro duro e c’è poca convenienza. In realtà resiste chi come noi fa questo lavoro per passione e non per speculare. I rincari degli affitti delle malghe sono stati impressionanti. Siamo passati dai 1900 euro a stagione di alcuni anni fa a oltre 5000 per malghe medio-piccole. Il problema è di natura speculativa. Le grandi imprese di allevamento potevano vantare titoli di alpeggio anche molto vecchi che garantivano rendite elevatissime, da mille a diecimila euro all’ettaro, cosa che portava queste aziende a cercare di accaparrarsi tutti i pascoli possibili, gonfiando quindi il valore degli affitti. Per capirci, un’impresa come la nostra prende 230 euro all’ettaro, e siamo fortunati, perché il valore del titolo di alpeggio medio italiano oggi è di 160 euro. Chi è piccolo non può permettersi un affitto troppo elevato. Ci sono state conseguenze anche sulla qualità del lavoro. Anni fa un casaro in malga arrivava a prendere fino a 100 euro al giorno, oggi si è fortunati se si arriva a metà di quella cifra. Questo perché per molte grandi aziende l’aspetto rilevante dell’attività era occupare un pascolo e guadagnare di rendita, per cui la produzione passava in secondo piano. Di conseguenza si portavano in malga delle persone poco preparate e per di più abbandonate a loro stesse, cercando così di massimizzare il profitto. Negli ultimi tempi a livello legislativo c’è stata una stretta, con una diminuzione generalizzata di circa il 30% per il valore dei titoli di alpeggio, col massimo consentito sceso a duemila euro per ettaro. Questo sta riducendo l’incentivo speculativo. Speriamo che ne conseguano un calo dei canoni e un aumento della qualità del lavoro. Per quanto ci riguarda però devo dire che l’Asuc di Saone sta cercando di venirci incontro. Noi cerchiamo sempre di dare il massimo e vogliamo crescere grazie al lavoro e a prodotti di qualità».
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