Il ricordo
martedì 22 Novembre, 2022
Leghista della prima ora, militante anzitutto ma anche ministro dell’Interno e governatore della Lombardia, Roberto Maroni non ha mai voluto appartenere a nessun «cerchio magico»: né a quello del fondatore Umberto Bossi né a quello del capitano Matteo Salvini. E Maroni, morto a 67 anni a causa di un tumore, non ha voluto nemmeno per sé un cerchio magico, nemmeno quando è arrivato ai vertici del Carroccio come segretario. In tanti però lo hanno seguito, e preso a modello di riferimento dei «governisti» dentro un partito che negli anni ha assunto numerose posizioni più o meno estremiste. Lo ricorda infatti come «un pezzo di storia della Lega, un eccellente governatore e ministro dell’interno che ha servito le istituzioni con passione e lungimiranza» il presidente della Provincia Maurizio Fugatti, E anche l’ex presidente trentino Ugo Rossi lo compiange: «Lo ricordo con piacere come collega governatore: serio, pragmatico, mai ideologico e sempre rispettoso della nostra autonomia speciale».
Oltre alla politica, la passione per la musica. Tastierista nei «Distretto 51», una band del varesotto, ha pubblicato anche qualche album. Ma è la politica che lo appassionerà più di tutto, e decisivo fu l’incontro con Bossi nel 1979. Allora discutevano del sogno dell’indipendenza del nord, e la declinazione di quelle idee era nei piccoli comitati indipendentisti ma anche – nel 1985 – in Consiglio comunale a Varese, la sua città, tra i primi leghisti nelle istituzioni locali.
Pochi anni e il salto in Parlamento. È eletto deputato alla Camera nel 1992, dove ricopre la carica di presidente del gruppo parlamentare leghista. Nel 1994 arriva addirittura al governo, con la nomina a ministro dell’Interno e vicepresidente del Consiglio dei ministri nel primo governo Berlusconi. Con la sua nomina, Maroni diventa il primo politico non democristiano della storia repubblicana alla guida del Viminale.
Pochi mesi al governo, e la grana del famoso decreto Biondi, che toglieva la custodia cautelare ai corrotti facendo lo sgambetto a Tangentopoli. Si pentì del suo sì al provvedimento, ma troppo tardi perché la Lega ritirò la fiducia al premier e lui, da solo, si oppose. E venne messo fuori dal partito.
Con la Lega si riappacificò poco dopo e il sodalizio con Bossi si espresse sulle idee antiche, quelle dell’indipendenza. E furono gli anni della fase secessionista ma anche delle attenzioni della magistratura sulla neonata Guardia nazionale padana, sospettata di essere un’organizzazione paramilitare vietata dalla legge. Fu allora che Maroni morsicò un poliziotto. Al braccio, perché durante una perquisizione all’interno della storica sede leghista di via Bellerio l’agente lo voleva portare all’esterno dell’edificio a forza per procedere al sopralluogo negli uffici del Carroccio.
Quando La Lega tornò al governo con Berlusconi, era il 2001, a Roberto Maroni fu affidato il ministero del Lavoro. E nel 2008 torna al ministero dell’Interno. In tanti gli riconosceranno di essere stato il «miglior ministro dell’Interno» di sempre. E il riconoscimento arriverà addirittura anche da Roberto Saviano.
Quando la Lega fu travolta dagli scandali dei diamanti in Africa, che coinvolsero anche la famiglia Bossi, Maroni fondò la sua corrente, i Barbari sognanti. E si presentò ai militanti leghisti con la ramazza in mano per assicurare che avrebbe fatto pulizia dei cerchi magici che dettavano la linea del partito per interesse spesso familiare. Lasciò poi l’incarico perché eletto governatore della Lombardia, e dopo il primo mandato lasciò anche questo incarico.
Da quel momento lasciò la politica attiva, anche se non quella amministrativa, con il tentativo di tornare nel suo consiglio comunale di Varese come sindaco, rinunciando poi alla candidatura per i primi segnali della malattia che lo costringevano alle cure. Maroni ha continuato a suonare con «Distretto 51», scrivendo anche sul Foglio e dicendo sì soltanto a un’incarico pubblico nel 2021, affidatogli dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, l’arcinemica di Salvini. Si doveva occupare della Consulta per l’attuazione del protocollo d’intesa per la prevenzione e il contrasto dello sfruttamento lavorativo in agricoltura e del caporalato.
La sua morte, conseguenza di un tumore, è avvenuto nella notte del 22 novembre. Nella sua Lozza, provincia di Varese, la sua terra.