L'intervista
mercoledì 24 Gennaio, 2024
di Gianfranco Piccoli
Pensiero rivolto verso orizzonti lontani e piedi (e mani) piantati. Nella terra. Cristian Malacarne, classe 1986, ben rappresenta il nuovo volto dell’imprenditoria agricola. Nessuna eredità familiare da tramandare, in tasca (dopo il diploma al liceo Guetti di Tione) una laurea magistrale in filosofia politica ad indirizzo economico, con una tesi che ha messo a confronto neoliberismo americano e cooperativismo sociale e rurale del Trentino.
Oggi, nella frazione di Duvredo, comune di Comano Terme, Malacarne guida un’azienda di medie dimensioni che produce e trasforma piccoli frutti: 80-100 mila vasetti all’anno che finiscono sulle tavole (non solo dei turisti) attraverso i Tcanali dei mercatini piuttosto che dei negozi del tipico. Soprattutto, Malacarne è cofondatore (e presidente) di un’associazione, la Deges, che ha messo in rete decine di produttori, non solo agricoli, delle Giudicarie Esteriori, creando un circolo virtuoso che altri territori trentini ora prendono ad esempio.
Insomma, hanno dato vita ad un «format».
Deges – questo il nome dell’associazione – è l’acronimo di Diffusione Enogastronomica Giudicarie Esteriori. Le 27 realtà (erano 6 agli albori) che aderiscono rappresentano settori che vanno dall’apicoltura ai salumi, dai prodotti agricoli alla panificazione. La logica (vincente) è quella della valorizzazione del territorio e dell’«uno per tutti, tutti per uno». Nulla di nuovo, nella terra di don Guetti, si potrebbe osservare. Va detto tuttavia che questa realtà si muove al di fuori fuori dalle tradizionali forme di cooperazione: «Ma siamo complementari, non contro», precisa l’agricoltore-filosofo.
Malacarne, che c’azzecca la filosofia con l’agricoltura?
«C’azzecca. Il filosofo non è quello che se ne sta seduto con lo sguardo perso nel vuoto. La filosofia aiuta ad andare oltre, a cercare cose nuove, a non fossilizzarsi. E poi, detto fra noi, è stato un bene non fare della sola filosofia un lavoro: per me è stata fin da giovanissimo una passione e tale rimane. Continuo a studiare, a leggere. Se fosse un lavoro, non so se lo farei. Aggiungo: oggi l’interdisciplinarietà non è più un tabù, anzi. C’è chi ha una formazione umanistica e lavora in banca e chi ha una laurea in economia e fa l’agricoltore. Ecco, oggi per fare l’imprenditore agricolo ci vuole una cultura che vada oltre l’agricoltura stessa, e soprattutto in Trentino non può non connettersi con il terziario».
Perché ha iniziato a lavorare i campi?
«Per necessità. In famiglia avevamo un terreno, duemila metri in tutto. Io volevo rendermi autonomo e mentre studiavo per la magistrale ho cominciato a coltivare piccoli frutti, lamponi, che conferivo a Sant’Orsola. Una quindicina di quintali all’anno che mi garantivano 10-11mila euro lordi, abbastanza per mantenermi. Ma non avevo ancora realizzato che sarebbe diventato il mio lavoro».
Poi cos’è successo?
«Che non mi ritiravano i prodotti di seconda scelta. Prodotti ottimi, ma che non avevano le caratteristiche ideali per la commercializzazione. Così li ho portati in val di Gresta per essere trasformati. Un comportamento, da parte del consorzio, che non mi è piaciuto».
Una critica alla cooperazione?
«Non in senso assoluto. È una critica sul piano economico (bassa redditività e incertezza su tempi e quantità del ristorno) e sul piano dei rapporti umani, di fatto inesistenti. Aggiungo che il lampone è un frutto “difficile”, anche per questo puntare sulla trasformazione è stato necessario: ha una resa economica superiore al fresco. Nel 2016 ho aperto il mio laboratorio e oggi coltivo tre ettari e ho due collaboratori».
Gli inizi come sono stati?
«Difficili, anche perché (siamo intorno al 2010) in quegli anni non c’era ancora un mercato vero. Mi è capitato al mercatino di Rango di vendere cinque pezzi in un giorno: oggi in una giornata clou a Rango arrivo anche a mille pezzi».
La svolta?
«Nel 2016, quando il turismo enogastronomico, quello dei mercatini e dei b&b, ha cominciato a diffondersi capillarmente. Con un gruppo di amici siamo andati nel centro Italia, Umbria e Toscana, per capire come sviluppare il tipico. A San Gimignano abbiamo visto che tutti i prodotti, ma proprio tutti, avevano il marchio “San Gimignano”: il brand era il territorio stesso. Qui è nata l’idea di creare Deges, di fare rete fra di noi per promuovere i prodotti legati ai cinque comuni delle Giudicarie Esteriori. Allora eravamo in 6 e quasi non ci conoscevamo pur vivendo e lavorando a pochi chilometri di distanza».
Fare rete: concretamente cosa significa?
«Ognuno di noi ha un punto vendita che propone i prodotti di tutti gli altri e sul piano dell’ospitalità ci aiutiamo quando ci sono “esuberi”. Se ho le camere piene, chiamo gli altri soci. Ci sono poi i corner nelle famiglie cooperative. E, soprattutto, c’è dialogo fra di noi, scambio».
Funziona?
«Funziona, c’era un vuoto e lo abbiamo riempito. Al punto che altri territori del Trentino, come il Chiese, ora guardano con interesse alla nostra formula».
Va superata la logica del campanile.
«È stato più facile del previsto. E la cultura del campanile forse appartiene ad altre generazioni».
Siete alternativi, contrari o complementari alla cooperazione tradizionale?
«Certamente complementari. Anche se all’inizio ci sono stati cooperatori che non ci hanno visto di buon occhio. Noi comunque restiamo un’associazione, con una struttura leggerissima e quote basse, anche per poter essere inclusivi delle realtà più piccole, che sono un’enorme ricchezza del territorio. Creare barriere d’ingresso sarebbe un grave errore».
Detto del commerciale, avete un approccio diverso anche sul piano della sostenibilità ambientale?
«A breve avremo il rinnovo del direttivo e per il 2024 ci siamo dati due propositi: il primo è sviluppare le azioni legate all’ospitalità (gastronomia e posti letto), il secondo organizzare eventi legati alla sostenibilità ambientale. Diciamo che chi entra in Deges ha già fatto scelte diverse: nel campo della zootecnica, ad esempio, abbiamo soci che hanno aderito al progetto Inversion per applicare tecniche meno impattanti».
l'intervista
di Davide Orsato
L’analisi del giornalista che ha di recente pubblicato un manuale per spin doctors dal titolo «Non difenderti, attacca» e contiene 50 regole per una comunicazione politica (imprevedibile e quindi efficace)