L'intervista
domenica 28 Gennaio, 2024
di Ambra Visentin
Ci sediamo attorno al tavolo, in una calda cucina di Lavis. Nell’aria c’è odore di canederli e di buon cibo trentino. Ma questa non è una cena qualunque. L’occasione è speciale: Andrii Khalaturnyk è un soldato dell’esercito ucraino di 38 anni e si trova in congedo in Italia, assieme alla moglie Evgenija (38 anni) e alla figlia Bogdana (12 anni). È venuto a trovare il padre Yuriy, che 20 anni fa scelse il Trentino come propria casa per sostenere la famiglia rimasta in patria. Tutti siamo ospiti dell’ex collega di Yuriy e della sua ampia famiglia. La combricola è numerosa, ma il silenzio è totale, quando Andrii Khalaturnyk inizia a raccontare. Dapprima insiste per parlare in inglese, ma le difficoltà sono troppe e deve continuare in russo. Si tratta di un sacrificio non da poco: quella lingua ormai evoca solo orrore.
Quasi due anni fa ha avuto inizio l’invasione russa che ha cambiato le vostre vite. Che cosa ricorda di quei momenti?
«Una forte esplosione a Dnipro (in Ucraina orientale, ndr), dove abbiamo la nostra casa, ci ha svegliati alle 4 del mattino. Sapevamo che era solo questione di tempo perché quel giorno arrivasse. Abbiamo preprarato alcuni zaini in tutta fretta, raccolto i documenti e siamo partiti in auto con l’obiettivo di andare verso il confine con la Polonia. Ci siamo fermati a casa della famiglia di mia moglie e poi abbiamo proseguito. Le scene di tutta una popolazione in fuga erano impressionanti».
Ce ne può descrivere qualcuna?
«Immagini il pubblico dello stadio di San Siro ad un concerto dei Queen e che questo si riversi nella stazione ferroviaria di una città di medie dimensioni nella speranza, dopo estenuanti attese, di riuscire a salire su un treno in partenza per l’Europa. Questo è quello che succedeva, ad esempio, a Leopoli, la mia città natale».
Poi avete raggiunto il confine, ma Lei è rimasto in Ucraina.
«Mi sono assicurato che mia moglie e mia figlia entrassero in Polonia, dove ora vivono, mentre agli uomini non era consentito partire. Mi ha convocato il centro di reclutamento e così ho iniziato l’addestramento di tre settimane per entrare nell’esercito. Il flusso di persone era continuo. E una volta entrati in questa struttura, anche volontariamente, non c’è più modo di uscirne».
Tre sole settimane per trasformarsi in soldato. E che funzione svolge nel conflitto?
«Ho dovuto imparare a fare il meccanico. Riparo carrarmati, mi occupo di logistica e faccio assistenza vicino alle linee del fronte ogniqualvolta è necessario riparare qualcosa in loco o portare rifornimenti di pezzi».
Di cosa si occupava prima dell’invasione?
«Mia moglie ed io siamo ingegneri ferroviari e ci occupavamo di logistica dei trasporti in un’azienda dove io poi ho lavorato anche come manager delle vendite. Ho dovuto sospendere ciò che ero per diventare altro. La mia vita non è più mia, appartiene al mio Paese».
Il conflitto sembra ad un punto di stallo e gli aiuti esteri stanno in qualche modo calando. Com’è il confronto con il nemico?
«Al momento non possiamo fare nulla perché non abbiamo abbastanza armamenti e proiettili d’artiglieria. Le immagini che vedete in televisione non riescono a riprodurre nemmeno lontanamente lo stato di distruzione e orrore reale. Il numero di soldati che combattono dalla parte della Russia e che viene sacrificato è enorme. Un mio conoscente si trova al fronte a Bakhmut e riporta che c’è una rotazione costante della fanteria. Ha sempre con sé due fucili automatici. Il primo nemico è praticamente disarmato, lui risponde al fuoco, gli cade addosso, arrivano i successivi, un po’ più grandi e meglio corazzati, che rispondono al fuoco. E arriva quello dopo, che è già molto ben equipaggiato. Ad un certo punto non sente più le dita, perché sta premendo incessantemente il grilletto. L’assalto continua, il primo fucile si fa rovente e prende in mano il secondo per continuare a sparare, mentre il campo si copre di soldati morti».
Come vive la popolazione civile nelle zone vicine al conflitto?
«Le persone che vivono a brevissima distanza dal fronte, a Kharkiv come a Donetsk, hanno smesso di nascondersi quando sentono una sirena perché se il missile arriva non lascia scampo. Spesso si tratta di missili balistici che non riusciamo ad intercettare. Tanti si sono talmente abituati al fatto che c’è una guerra da due anni che non reagiscono più».
Che significato ha per Lei questa guerra?
«È l’ultima chance di liberarci dai russi. È la seconda volta in 200 anni che abbiamo questa possibilità, quando l’impero si sta disintegrando. Non l’abbiamo colta 105 anni fa, quando stava crollando l’impero zarista e se ora non la sfruttiamo distruggeranno tutto, non sono progettati per creare nulla. Già in passato ci hanno fatto patire la fame. Mia nonna è stata deportata in Siberia a soli 11 anni per lavorare come contadina e mio nonno, a 19 anni, è stato imprigionato con un pretesto e costretto a lavorare in miniera. Questo è ciò che fanno: genocidi, saccheggi, stupri. Lo hanno fatto in Cecenia, Afghanistan, Siria e Georgia. Con il conflitto a Gaza il focus si sta spostando, ma l’Unione Europea non può permetterselo, perché la Russia non si fermerà all’Ucraina, andrà oltre: seguiranno la Polonia, i Paesi baltici… Se Putin riesce a dividere l’Europa, li vincerà uno per uno».
Quale futuro sogna in caso di vittoria?
«Sogno un Paese che possa decidere del proprio destino. Abbiamo un Presidente che non ho votato e con il quale spesso non sono d’accordo, ma questo fa parte dell’essere in una democrazia. La guerra cambia la visione del mondo e ti porta a riconsiderare quali sono le cose importanti. Nessuno sa cosa succederà in futuro, ma la ricostruzione arriverà. Mia moglie lo vede ogni giorno al lavoro: ci sono moltissime aziende europee che sono pronte ad entrare nel mercato ucraino».
La vostra casa a Dnipro è ancora in piedi?
«Fortunatamente sì. È lì che ci aspetta, speriamo presto. Altrimenti chissà, potremmo venire in Italia da mio padre (sorride)».