L'INTERVISTA
martedì 13 Febbraio, 2024
di Francesco Cargnelutti
A quattro mesi dall’inizio della guerra tra Israele e Hamas, la stabilità del governo di Tel Aviv sembra reggersi su un equilibrio precario che potrebbe incidere sulla direzione dei negoziati tra le due parti. Nell’analisi di Arie Kacowicz, professore di Relazioni Internazionali della Hebrew University di Gerusalemme, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu è alle prese con una coalizione divisa tra un’ala più propensa ad un accordo con Hamas, che comporterebbe il rilascio degli ostaggi israeliani ed una qualche forma di interruzione o fine delle ostilità, ed una componente più oltranzista che esclude tale possibilità. La posizione di Netanyahu è resa ancora più complicata dalla crescente perdita di consensi tra la popolazione che ha iniziato manifestare per chiedere elezioni anticipate, anche se a fine gennaio la Knesset ha respinto una mozione di sfiducia – .
Rispetto alla guerra a Gaza il governo israeliano ha una posizione univoca?
«No, la coalizione si divide soprattutto sull’apertura o meno ad un accordo sugli ostaggi con Hamas. La posizione più moderata è quella del Campo di Stato, partito di centro-destra che si è unito alla coalizione dopo l’inizio della guerra. I suoi leader, Benjamin Gantz e Gadi Eisenkot, hanno giocato un ruolo importante nell’arrivare al primo accordo sugli ostaggi e al momento sembra siano a favore di un secondo accordo. Questa linea è considerata inaccettabile dai due partiti di estrema destra della coalizione, il Fronte Nazionale Ebraico di Itamar Ben Gvir e il Zionismo Religioso di Bezalel Smotrich, ma anche da molti esponenti del Likud di Netanyahu. Questa intransigenza non stupisce poiché questi due partiti si caratterizzano per un’ideologia fondamentalista che reclama per gli israeliani l’intera Terra di Israele, incluse Gaza e Cisgiordania».
E Netanyahu?
«Ha una posizione mediana. Probabilmente non è così estremo come Smotrich e Ben Gvir, anche se è stato lui a dar loro legittimità includendoli nella coalizione. Adesso ne è diventato ostaggio nel senso che, se decidesse di essere moderato, potrebbe perdere la maggioranza di governo in parlamento. Ben Gvir ha già detto che se Netanyahu raggiungerà un accordo sugli ostaggi, uscirà dal governo portandosi con sé 12 dei 64 deputati della coalizione e lasciando così il governo con 52 seggi all’interno di un parlamento monocamerale che ne conta 120. Se invece Netanyahu non accetta l’accordo, sono Gantz e Eisenkot che potrebbero lasciare il governo».
L’opposizione che posizione ha assunto?
«Dall’inizio della guerra non è stata molto attiva perché lo stato d’animo prevalente tra la nazione è che le forze politiche debbano stare assieme. L’esponente più importante è Yair Lapid, leader del partito di centro Yesh Atid. Quando la guerra è iniziata, Lapid ha detto che era disposto ad unirsi al governo a condizione che Netanyahu si sbarazzasse della componente più estremista della coalizione, ma il Primo Ministro non ha accettato. Qualche giorno fa Lapid ha ribadito che, se Netanyahu optasse per l’accordo sugli ostaggi, Yesh Atid potrebbe temporaneamente unirsi al governo o sostenerlo senza entrarvi. In questo modo, se gli esponenti di estrema destra lasciassero la coalizione, il governo non cadrebbe».
La popolazione israeliana come valuta l’operato del governo?
«La maggioranza vuole un cambio di governo. Secondo i sondaggi, solo il 15-20% degli israeliani vogliono che Netanyahu rimanga al potere e, se si votasse oggi, la coalizione di governo scenderebbe da 64 a 46 seggi alla Knesset e il Likud da 32 a 18».
Che cosa viene contestato a Netanyahu nella gestione della guerra?
«Diverse cose. Negli ultimi dieci anni, col fine di dividere i palestinesi di Gaza da quelli governati dall’Autorità Palestinese in Cisgiordania, ha dato luce verde al Qatar per trasferire dieci milioni di dollari al mese a Hamas. In questo modo è riuscito anche ad evitare di impegnarsi in negoziati di pace significativi. Inoltre, Netanyahu non ha assunto alcuna responsabilità per il massacro del 7 ottobre. C’erano avvisaglie secondo cui la riforma in senso autoritario tentata dal governo nell’ultimo anno, scatenando la protesta della società civile, avrebbe potuto indebolire la sicurezza dello stato. Così è stato. Infine, negli ultimi quattro mesi Netanyahu si è comportato come un politicante interessato unicamente alla sua sopravvivenza politica».
Chi si oppone al governo che soluzione auspica per il «giorno dopo» la guerra?
«Non tutti la pensano alla stesso modo. Una parte vuole che si raggiunga un accordo sul rilascio degli ostaggi. Ciò sarebbe doloroso: il fatto che la guerra finisca con Hamas ancora al potere a Gaza sarebbe una strategia terribile sia per gli israeliani che per i palestinesi. Hamas, inoltre, vuole il rilascio di migliaia di prigionieri palestinesi, tra cui ci sono terroristi e assassini di massa. Nonostante ciò, questa componente della società pensa che l’accordo sugli ostaggi sia la priorità per il governo perché c’è un’obbligazione morale che lega lo stato ai cittadini. Inoltre, il 7 ottobre ha riportato la questione palestinese al centro dell’attenzione. Durante i governi di Netanyahu gli israeliani hanno vissuto in un universo parallelo in cui venivano promesse sicurezza e crescita economica, ma dove i palestinesi erano invisibili. Ora gli israeliani sono in cerca di una nuova leadership e voglio credere che possano essere aperti alla creazione di uno stato palestinese demilitarizzato posto sotto alcune condizioni. Adesso c’è un numero crescente di manifestazioni che chiedono elezioni anticipate ed un accordo sul rilascio degli ostaggi, anche se non si è ancora arrivati a delle proteste di massa poiché la guerra è in corso e c’è il rischio di un’escalation regionale».
Non tutti quelli che criticano Netanyahu appoggerebbero un tale cambiamento.
«Esatto, c’è anche chi si oppone al governo rigettando l’ipotesi di un accordo con Hamas. Sono perlopiù ex sostenitori di Netanyahu giunti alla conclusione che il Primo Ministro sia responsabile del fallimento militare, di intelligence, e politico dietro al massacro del 7 ottobre».
Ci sono state anche manifestazioni contro la guerra e il tipo di intervento militare israeliano a Gaza?
«Ce ne sono state poche: questo tipo di proteste è stato quasi del tutto vietato poiché a parteciparvi ci potrebbero essere persone che si identificano con Hamas. Organizzarle è difficile anche perché Ben Gvir, da ministro della Sicurezza Nazionale, esercita grande influenza sulle forze dell’ordine. Ma il panorama delle proteste è molto variegato. Negli ultimi giorni, ad esempio, ci sono state manifestazioni, di tutt’altra natura, contro l’invio di aiuti umanitari a Gaza».
l'intervista
di Davide Orsato
L’analisi del giornalista che ha di recente pubblicato un manuale per spin doctors dal titolo «Non difenderti, attacca» e contiene 50 regole per una comunicazione politica (imprevedibile e quindi efficace)