L'intervista
venerdì 15 Marzo, 2024
di Gabriele Stanga
Raccontare il carcere attraverso gli occhi dei detenuti, oltre la visione stereotipata di film americani e serie tv. Con questo obiettivo nasce «Benvenuti in galera», il docufilm di Michele Rho, che, dopo il successo riscontrato nel resto d’Italia, arriva oggi in programmazione anche in Trentino. Quattro le date del tour: al Cinema Valsugana di Borgo Valsugana ieri e domenica 17 marzo (ore 20.30), al cinema Modena di Trento oggi (ore 20.30) e al Teatro Cinema Vallelaghi domani (ore 20). Al Cinema Modena, in particolare, è prevista sia la presenza del regista che del sindaco di Trento, Franco Ianeselli, che parteciperanno a saluti istituzionali e dibattito. Il film parte da un’esperienza piuttosto particolare, anzi unica: quella del primo ristorante al mondo aperto dentro un carcere. Ideatrice e supervisore del progetto è Silvia Polleri, la madre di Michele, che da anni lavora dentro il carcere. Da qui parte il racconto dei ragazzi che vi lavorano e delle loro storie umane. Storie di lavoro e del tentativo di ricostruirsi una vita oltre le mura del carcere. Di tutto questo ha parlato in anteprima il regista stesso, in un’intervista con «il T Quotidiano».
Ciak, si gira. La scena si svolge a Bollate e «In galera» è il primo ristorante al mondo all’interno di un istituto penitenziario. Com’è stato raccontare questa storia da regista?
«Mia madre lavora da vent’anni dentro il carcere di Bollate, se ne è sempre parlato in casa, l’idea del ristorante è nata ormai quasi 8 anni fa. Non sapevo come avvicinarmi ad esso, avevo molte remore. Alla fine, però ho deciso di cimentarmi con questa avventura. È stato un percorso di tre anni, cercavo un’occasione particolare per chiudere l’arco narrativo. Personalmente, quando giro un documentario seguo lo svilupparsi delle vicende, finché non percepisco che in qualche modo la storia è arrivata ad una conclusione. È stato un vero e proprio viaggio di scoperta».
Il tema della vita in carcere viene trattato, in modo un po’ romanzato, da alcune serie tv molto popolari. Basti pensare a «Mare fuori» o «Il re». Cosa pensa di questi prodotti?
«Che si parli di carcere è un bene a prescindere. Tendenzialmente fa paura, è un bene. Sono state fatte diverse cose, belle e brutte, stereotipate e meno. Di fondo in queste opere c’è una visione che deriva dal cinema americano e si fonda su un’idea filmata e raccontata in un certo modo».
Come cambia l’approccio a questa realtà nel suo documentario?
«Ho voluto liberarmi dall’immagine precostituita del carcere. Per questo ho deciso di raccontarlo attraverso gli occhi di chi è dentro. Il film tratta il reinserimento dei detenuti, il loro lavoro, come i ragazzi di Bollate possono trovare una loro dimensione. La forma del documentario mi ha permesso di non avere filtri. Da qui deriva la scelta del bianco e nero, per dare un’immagine elegante. La macchina da presa è molto ferma, non tenuta a mano o fuori fuoco come da eredità delle serie americane. Volevo allontanarmi da quella visione».
Quelle che lei racconta sono storie umane in cui il lavoro diventa redenzione.
«Storie di ragazzi che attraverso il lavoro hanno trovato un percorso nella vita c’è chi ha aperto un’azienda di pulizie, poi c’è il cuoco del ristorante che è un detenuto ma è chef a tutti gli effetti. Ha studiato con Marchesi e aveva già la cucina nel sangue. Sono tutte storie di gente che sta provando a riprendere in mano la propria vita».
Quest’anno Trento è Capitale Europea del Volontariato, che rapporto c’è tra quest’ultimo e il percorso dei detenuti che lei racconta?
«Il volontariato è importantissimo per l’attività di chi si avvicina a questo mondo e per l’aiuto che può dare nel migliorare le condizioni dei detenuti e porne in luce le criticità. Mi preme però sottolineare che quello che fanno i ragazzi protagonisti del mio documentario è lavoro pagato. Non è il ristorante della carità, qui nel carcere ci sono energie umane che possono fare cose di altissima qualità. I soldi permettono prima di tutto a loro di avere prospettive. Il detenuto paga per stare nel carcere, contrae dei debiti verso lo Stato, che poi deve ripagare. Quando esce gli viene presentata una cartella esattoriale, che rappresenta questo debito da estinguere verso lo Stato».
A proposito di questo, ci sono tanti luoghi comuni in Italia, come quello di chi vede il carcere come un albergo e dice «stanno meglio di noi».
«Purtroppo, sì, ci sono tanti luoghi comuni come questo. Per tale ragione mi piace portare il tema dentro le scuole. I ragazzi non hanno sovrastrutture, non pensano che i detenuti stiano in albergo e debbano marcire lì dentro. Se lo pensano è perché glielo ha messo in testa qualcun altro. Sulle coscienze dei ragazzi si può lavorare molto. Sono il futuro del Paese».
Un altro problema fondamentale è quello del sovraffollamento, come pensa si possa porvi argine?
«Il sovraffollamento è un dato di fatto, la vera domanda, però è perché siamo arrivati a questa situazione. Semplicemente non c’è un meccanismo virtuoso per cui chi sta in carcere, possa non tornarci quando esce. Se la recidiva è al 70%, vuol dire che c’è un problema alla base. È un serpente che si morde la coda. Il problema è che chi sta dentro non ha nulla da fare, sta male in carcere e poi finisce per ritornarci. Bollate è una situazione particolare, ma spesso i detenuti vengono spostati e girano l’Italia. Mia madre prende solo ragazzi che hanno una pena lunga, in modo che riescano a fare effettivamenteun percorso. Il mio documentariofinisce con una frase: “Lei cosa vuol fare? Lavorare”. Non c’è cosa peggiore per un detenuto che restare senza nulla da fare».
Che cosa pensa della giustizia riparativa?
«Non conosco bene questo tipo di percorsi ma penso debbano avere due prerogative fondamentali: il reo deve credere in questo percorso e in secondo luogo è giusto prestare la giusta attenzione anche alla vittima. Non dobbiamo dimenticarci che dall’altra parte ci sono parti lese. Io non voglio rendere i ragazzi di cui parlo né degli eroi né dei delinquenti. Rispetto la parte lesa ma anche della dignità di chi ha sbagliato. Qualcuno mi ha chiesto perché non facessi un documentariodalla parte delle vittime. Io non penso di essere in grado e non voglio immergermi in quel dolore. Ho visto, però, molte interviste a parenti di vittime americane, che avevano il visto reo sottoposto alla pena capitale. Nessuno di loro stava bene. La pena di morte non porta mai a nulla. La finalità della pena è rieducativa, troppo spesso ci si dimentica di ciò».