La storia
martedì 19 Marzo, 2024
di Sara Alouani
Si descrive come un ponte che unisce la realtà delle donne musulmane a quella del mondo occidentale. Italiana, cristiana (da piccola voleva diventare suora), Giorgia Afnan Caliari vent’anni fa ha deciso di convertirsi all’islam e ha iniziato un percorso che l’ha portata a diventare una coach councelor specializzata nei rapporti tra identità italiana e fede musulmana. Lo scorso ottobre Giorgia è stata una dei relatori del progetto «Trust» a Trento: una serie di incontri sull’islamofobia di genere, crimini d’odio e discorsi d’odio con l’obiettivo di abbattere le barriere che, secondo un’indagine della Procura, portano pochissime donne musulmane a denunciare atti di violenza subiti.
Chi era Giorgia Caliari?
«Era una bambina nata a Verona a fine anni Ottanta che è sempre stata affascinata dalla teologia tanto che ogni volta che qualche rappresentante religioso suonava a casa, che fosse Hare Krishna o testimone di Geova, io lo facevo entrare a casa per confrontarmi. Parallelamente andavo con mio padre alle riunioni del partito comunista. Ci chiamavano ‘i Togliattini’. A 13 anni volevo diventare suora. Andavo regolarmente a messa, pregavo ed ho ricevuto tutti i sacramenti della religione cattolica: dal battesimo alla cresima. Leggevo il Vangelo, le Lettere di San Paolo e sicuramente il mio spirito etico comunista mi ha portato ad essere una persona aperta verso gli altri. Ho sempre avuto una grande sete di spiritualità. Poi a 16 ho abbandonato la linea cristiana».
Perché?
«Iniziava a starmi stretta e non riuscivo a comprenderne i dogmi. Ho iniziato a fare yoga e meditazione e ho intrapreso la strada del buddhismo. Con il gruppo di yoga sono andata in India per 21 giorni nel 1997. Fu un viaggio spirituale in cui girammo in lungo e in largo sia i templi buddhisti che induisti. In quel periodo non conoscevo l’islam se non per un fatto di cronaca accaduto alla Mecca dove morirono migliaia di persone nella calca del pellegrinaggio. Mi turbò molto».
Come si è avvicinata allora all’islam?
«Proprio in India. Durante il viaggio ci portarono a vedere una moschea sufi a Jaipur. Ricordo una vasca dove veniva raccolto il cibo per i bisognosi e un forte odore di rosa. Poi questa ‘litania’ della recitazione del Corano. Uscii dalla moschea in lacrime senza sapere il motivo per cui stessi piangendo. Tornata in Italia indagai e mi informai sulla preghiera sufi e iniziai a performare i movimenti della ‘salat’ come forma di meditazione con il Corano in sottofondo. Non avevo idea di quello che stessi facendo ma mi metteva pace».
Lei ora indossa il velo, quando è avvenuta la conversione «formale» all’islam?
«Può sembrare una follia però la racconto comunque: una sera a letto, mentre dormivo, ho sentito un vento che mi accarezzava la fronte e una voce limpida ma pacata mi ha detto ‘sei sulla strada giusta’. Mi sono svegliata e mi sono accorta che la finestra era aperta. Lì ho capito che ero musulmana. Mi sono convertita formalmente con un imam a Brescia e mio marito, che è palestinese, ha presenziato alla mia shahadah (testimonianza di fede, ndr). Quanto al velo, l’ho indossato nel 2003 per identificarmi e vivere appieno la mia identità da musulmana al di là dell’obbligo che varia a seconda delle scuole di pensiero».
Lei ha anche un nome arabo, Afnan…
«Sì ma non c’entra con la conversione. Lo scelse mio suocero in Palestina perché non si ricordava il nome Giorgia. Mi disse ‘quando ti guardo mi viene in mente Afnan’ (il nome di una pianta simbolica che cresce nel paradiso presente nel Corano, ndr). In arabo significa ‘germoglio’ e mi si addiceva moltissimo perché rappresentava il mio passaggio ad una nuova vita, un nuovo modo di essere.
Comunque, Giorgia o Afnan non fa differenza: percepisco la mia identità in entrambi i nomi».
Suo marito ha interferito in qualche modo nelle sue scelte?
«Dopo una settimana che mettevo il velo mi ha chiesto se dovevo proprio indossarlo tutti i giorni (ride ndr). Non ha mai giudicato le mie scelte, inoltre, io ho un carattere molto ribelle. Non avrei mai accettato mi fosse imposto qualcosa».
Come hanno reagito la sua famiglia e le sue conoscenze italiane?
«I miei genitori un po’ se l’aspettavano. Mi avevano vista passare da suora al buddhismo e per me è sempre stata una continua ricerca. Non mi hanno mai fatto ostruzionismo in alcun modo ma mi hanno chiesto più volte se ero sicura della mia scelta. I compagni di mio padre non potevano vedere una comunista con il velo, però non ho ricevuto critiche cattive».
Passiamo al progetto Trust. Cos’è e come mai proprio a Trento?
«Un’indagine della Procura di Trento ha rilevato che non ci sono denunce sporte da donne musulmane. Questo non perché Trento sia una città particolarmente virtuosa ma perché le donne da un lato non si fidano delle forze dell’ordine e si sentono stigmatizzate, dall’altro perché non conoscono la giurisprudenza italiana e preferiscono confrontarsi con la loro comunità. In qualità di coach counselor ho tenuto dei corsi di formazione per le forze dell’ordine e per gli operatori della società civile sull’islamofobia di genere, crimini d’odio e discorsi d’odio contro le donne musulmane. Questo permette loro di capire come rapportarsi con questa tipologia di cittadine e comprendere appieno le loro esigenze o limiti, anche linguistici».
Avete tenuto dei corsi anche per le donne della comunità islamica, però…
«Esatto. Per insegnare loro come agire qualora dovessero ritrovarsi vittime di discriminazione. Non sono poche le donne che vengono discriminate a priori solo perché indossano il velo. È importante spiegare loro come sporgere denuncia e quale è il limite legale per poterlo fare. Vorrei che imparassero a parlarne senza timore, perché il confronto può aiutare a creare un clima più disteso. L’obiettivo è quello di redigere un protocollo di accoglienza delle donne musulmane assieme allo sportello anti-violenza. A Verona lo abbiamo già approvato».