L'intervista

domenica 24 Marzo, 2024

Paoletta Magoni: «Dopo l’oro olimpico ho fatto la commessa e vendevo sci. Mi chiedevano se sapevo sciare»

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L'ex sciatrice si racconta a distanza di 40 anni dalla storica vittoria a Sarajevo. «Oggi aiuto mio fratello Livio allo Ski Team Magoni; abbiamo ragazzi italiani e stranieri»

La ragazza nella nebbia. Sono passati quarant’anni da quel 17 febbraio del 1984, quando Paoletta Magoni nel nebbione in stile padano di Jahorina allo slalom olimpico di Sarajevo vinse a 19 anni la medaglia d’oro, la prima nella storia del nostro sci femminile. Giovedì sera Paola Magoni è stata festeggiata a Monte Bondone al Noleggio Nicolussi, madrina e padrona di casa, Dody Nicolussi, presidente dell’Associazione Nazionale Atleti Olimpici e Azzurri d’Italia del Trentino, ex azzurra di sci e da anni voce e volto di Sky per lo sci alpino, che ha voluto così rendere omaggio a una campionessa olimpica sua amica e compagna di squadra in Nazionale, una donna foriera di valori quali sacrificio, modestia e riservatezza. Ad omaggiarla sono intervenuti anche Salvatore Panetta, assessore allo sport del Comune di Trento, e Tito Giovannini, rappresentante del Trentino nella Fondazione Milano-Cortina 2026.

Magoni festeggia l’oro olimpico, 1984

Paola, quarant’anni dopo qual è stato il suo primo pensiero il 17 febbraio scorso?
«Che il tempo passa, quarant’anni sono tanti e stiamo diventando vecchi (ride, ndr). Non sono una persona che vive sugli allori; certo, ci penso e mi dico “beh dai, ho vinto un’olimpiade”, ma la vita va avanti».
Quarta dopo la prima manche, e poi il trionfo nella seconda.
«Tra le due manche entrai nella ski room dove Giovanni Collodet, il mio skiman, stava preparando gli sci. Lo vidi con le lacrime agli occhi, e gli chiesi perché stesse piangendo: “Sono emozionato e ho paura di sbagliare” mi disse. “Ecco, allora non piangere adesso. Senti, pensa a farli bene che in caso piangiamo dopo” gli risposi. “Se non vinco oggi, non vincerò mai più” mi dicevo; ero carica, concentrata e determinata. Sentivo che era il mio giorno».
«Voi non sapete quante piastrelle ho dovuto attaccare nella vita per far sciare mia figlia», disse suo padre ai giornalisti al parterre di Jahorina. Di sacrifici ne aveva fatti tanti, e quel momento lo ripagò di tutto.
«C’erano lui, Toni Morandi, il mio allenatore che mi seguiva sin da quando ero ragazzina, e Angelo Bertocchi, il presidente dello Sci Club Selvino. Da lunedì a venerdì nostro padre era sempre al lavoro, partiva alle 5 del mattino e tornava dai cantieri alle 10 di sera quando noi eravamo già a letto; con tre femmine e due maschi, la mamma si divideva tra casa e il negozio di alimentari. Hanno fatto sacrifici enormi per noi. Sugli sci ci ha messi papà, che non sciava più ma era un grande appassionato, e le gare il sabato e la domenica erano per lui l’occasione per stare con noi. A Sarajevo manco voleva venire, “troppo caro il biglietto aereo, sapete quante gare facciamo con quei soldi!”, diceva. I soldi glieli diede mia nonna e così venne».
Al ritorno fu una grande festa. E il 17 febbraio scorso ne avete fatta un’altra per il quarantesimo anniversario: emozionata?
«La casa che mi forniva gli sci mi mise a disposizione un jet privato, a quei tempi roba da andar fuori di testa. Chiesi e ottenni che con me sull’aereo salissero anche le mie compagne di squadra, Daniela Zini, “Ninna” Quario e Fulvia Stevenin. All’arrivo, all’aeroporto di Linate c’era mezza Bergamasca; un corteo di macchine con le bandiere italiane ci scortò fino a Selvino, dove il prete suonava la campane a festa. Il 17 febbraio scorso ne abbiamo fatta un’altra per l’anniversario; a darmi un saluto è venuta tanta gente, c’erano le persone a me più care, ed è stato molto bello».
Quanto le cambiò la vita quella medaglia d’oro?
«Mah, a me non più di tanto. Mi vivo la mia vita. È semmai cambiata di più alla gente attorno a me; quando non ero nessuno facevano fatica a salutarti, poi ti cercavano tutti. L’importante nella vita è tenere i piedi bene per terra».
Lei ha smesso giovane, ad appena 25 anni. Perché?
«Avevo chiesto un team privato con Toni Lonardi e Giovanni Collodet. Era una richiesta troppo avanti per quei tempi, e non mi fu concesso. Toni lasciò, in tre anni cambiai tre allenatori, ciascuno con idee diverse. Sentivo che non stavo andando da nessuno parte, e smisi».
Poi che ha fatto?
«Ho lavorato per anni al reparto sci di una catena di negozi di articoli sportivi».
Beh, fortunati quei clienti a trovare in negozio una medaglia d’oro alle olimpiadi…
«Non ho mai detto chi ero, e spesso mi guardavano con scetticismo in quanto donna. Quando i miei colleghi glielo dicevano rimanevano basiti. Mi è anche stato chiesto se sapessi sciare: “sì, sì, ho fatto spazzaneve agonistico” rispondevo, ma mica capivano. Sono partita come commessa, poi ho iniziato ad occuparmi degli acquisti. È un lavoro che ho sempre fatto volentieri».
E oggi?
«Aiuto mio fratello Livio allo Ski Team Magoni; abbiamo ragazzi italiani e stranieri, dai 16 anni in su. Livio è l’allenatore di Martina Dubovská in Coppa del mondo. Nel tempo libero faccio la maestra di sci alla scuola di Piani di Bobbio».
A Sarajevo è più tornata?
«Sono tornata per la prima volta nel 2004, vent’anni dopo le olimpiadi. Le ferite lasciate dalla guerra erano ben visibili nei cimiteri disseminati in città e negli occhi della gente che trasmettevano dolore e tristezza. Sono tornata un anno fa, e ho visto una città piena di energia e voglia di vivere. Ho ritrovato la Sarajevo del 1984. Mi hanno portata sulla pista di Jahorina, dove mi hanno fatto un’accoglienza incredibile. È un ricordo che porterò sempre nel cuore. Dovevo tornare quest’anno per il quarantennale dell’olimpiade, ma è scomparso un caro amico, una persona a me molto cara. Volevo anche portarci mia madre, ma non me la sono sentita di andare a festeggiare, non era il momento. Nella vita ci sono delle priorità, tornerò il prossimo anno. Ma Sarajevo mi ha dato anche altro…»
Cosa?
«L’amicizia con Ariana Boras, ex sciatrice della Bosnia-Erzegovina con tre partecipazioni alle olimpiadi, dai tempi della guerra rifugiata a Bormio dove si è rifatta una vita. È una ragazza limpida e solare, dal cuore grande, e sono felice di essere sua amica».
Con chi è rimasta in contatto della sua squadra?
«La mia compagna di stanza era Fulvia Stevenin. Lei valdostana, io bergamasca: andavamo molto d’accordo, abbiamo passato tanti anni insieme e siamo rimaste amiche. Con Daniela Zini ci vediamo ogni tanto a qualche manifestazione, e a “Ninna” Quario faccio i complimenti al telefono per le imprese di sua figlia Federica. Anche con Giovanni Collodet ho tenuto i contatti e siamo amici. Alla recente festa di Selvino è venuto anche il nostro allenatore della nazionale Stefano Dalmasso, e mi ha fatto molto piacere rivederlo. Toni Lonardi purtroppo ci ha lasciati».
Cambiano le generazioni, ma da allora la Valanga Rosa non si è più fermata: oggi abbiamo uno squadrone.
«Fortissime le nostre ragazze, Federica Brignone e Sofia Goggia sono due Caterpillar. I ragazzi fanno un po’ più fatica, ma arriveranno anche loro».
Maltempo, cancellazioni, e troppi infortuni: la Coppa del Mondo va ripensata?
«Il circuito è ancora così dai tempi in cui correvo io. È un po’ vecchio e qualcosa va fatto, ad esempio nella scelta delle località che andrebbero ponderate meglio. È inutile programmare le gare in posti dove il rischio di cancellazione è altissimo e, se ti va bene, la gara la fai su due centimetri di neve».
Siete cinque fratelli, dediti allo sport. E oggi chi la porta avanti la saga dei Magoni?
«Oscar è stato calciatore in serie A ed è poi rimasto nell’ambiente come dirigente; Livio è allenatore di sci alpino in coppa del mondo (ha contributo ai successi di Tina Maze e Petra Vlhova ndr); Sonia è arrivata in Coppa Europa ma poi si è rotta un ginocchio e ha dovuto lasciare; Francesca non ha mai fatto gare ma sua figlia gareggia nella categoria Giovani; lei e suo cugino, il figlio di Livio che ha 11 anni, sono il futuro della famiglia sugli sci».
Il primo consiglio di Paola Magoni ai suoi allievi?
«Agli agonisti dico di impegnarsi ma anche di divertirsi sugli sci. Ai bimbi della scuola insegno invece a sciare giocando. Se diventa un obbligo, non va bene».