L'intervista
venerdì 29 Marzo, 2024
di Alberto Folgheraiter
In “pensione” da una decina di giorni, l’arcivescovo emerito di Campobasso-Boiano, Giancarlo Maria Bregantini, è tornato a Don, suo paese natale, per far visita ai congiunti. (Oggi) Venerdì santo tiene l’omelia nel corso del rito della Via Crucis in cattedrale a Trento. «Il mio intervento ruota attorno alle sette parole pronunciate da Gesù sulla croce», racconta a Il T che lo ha incontrato in libreria mentre cercava alcuni titoli di approfondimento pastorale. Il 28 settembre scorso, al compimento dei 75 anni, così come prescritto da un decreto del concilio Vaticano II, l’arcivescovo Bregantini ha rassegnato le dimissioni che il Papa ha accolto il 1° dicembre.
Lei è in pensione da due settimane. Che cosa fa un vescovo emerito dopo trent’anni di governo episcopale e una vita in prima linea?
«È una domanda imbarazzante, perché da una parte si riconosce di aver fatto un gesto grande consegnando le chiavi della Curia al mio successore».
È stato difficile?
«È difficile, sì. Trent’anni sono una vita: dal 7 aprile del 1994 a oggi. È un gesto grande ma è anche un gesto liberante come la consegna del pastorale (il bastone del vescovo che rappresenta il potere ecclesiastico). Ti accorgi che la vita è fatta di doni ricevuti, custoditi e riconsegnati».
Un po’ come quando da bambini arrivava un fratellino e si diceva che il primogenito cadeva dalla scala, no?
«È una situazione che coinvolge anche chi ti sta intorno. C’è tutto il discorso di un legame con i preti della tua Chiesa che hanno vissuto con te; col nuovo vescovo che arriva, con l’ambiente che ti circonda e che, per lunghi anni, ha fatto parte della tua vita da vescovo».
Da Locri a Campobasso, due realtà e due stili di Chiesa diversi?
«Si può dire che entrambi hanno avuto gioie e lacrime. Gioie perché ogni ambiente chiede di essere evangelizzato. Non si può dire che Locri è tutto tristezza o problemi e Campobasso no. L’Italia centrale, sotto sotto, ha mille guai come tante zone della Terra. C’è da discernere lì come altrove».
A Locri come si sentiva?
«A Locri mi sentivo più un pastore che combatteva direttamente il lupo pronto a sbranare le pecore. A Campobasso mi sono sentito più sentinella perché bisognava comunque vigilare, si doveva tenere aperto il cuore perché, se non stavi attento, era facile lasciarsi prendere dalla quotidianità».
Ciò che da contadino “noneso” ha seminato a Locri ha dato frutti?
«Tantissimi. Sono arrivato nella Locride in un momento storico straordinario. La Calabria aveva bisogno di uno stimolo e la semente è arrivata in un cuore che aspettava con ansia un riscatto. Uno di questi frutti più belli è la cooperativa GOEL con Vincenzo Linarello, la rete di cooperative sociali contro la ‘ndrangheta e per il cambiamento della Calabria. E poi c’è stata l’esperienza di Riace».
Già, il modello Riace che tanto ha fatto scrivere per l’accoglienza (e la condanna) del sindaco Mimmo Lucano. È stato calcolato che in 17 anni, da Riace siano passati 6 mila richiedenti asilo provenienti da 20 Paesi. E molti hanno deciso di restare in quel borgo arroccato a un pugno di chilometri dallo Ionio.
«Davanti ai migranti, dalla Calabria abbiamo due esempi: uno bello e uno triste. Bello è Riace che accoglie e rende tutti protagonisti perché la gente di Calabria si è sentita finalmente libera, non più schiava».
Per contro, sullo stesso mare restano le croci di Cutro.
«Una tragedia dove i soccorsi non sono arrivati e gli appelli sono stati ignorati. Oggi la Calabria, ma vorrei dire l’Italia intera, ha di fronte due scelte: una è Riace, con l’accoglienza, dove i migranti diventano addirittura fattore di crescita perché ripopolano le scuole e gli asili. L’altra, negativa, è Cutro. Davanti a questo c’è la forza del Vangelo, il quale annuncia che la scelta di Cutro è sempre travolgente. Un male che ti fa sprofondare».
Invece la scelta di Riace…
«Ti accorgi che l’immigrato accolto ci salva: dalla denatalità, dai paesi vuoti».
Le istituzioni, in questo contesto, arrancano.
«Sono piuttosto indietro. Oggi la Chiesa si sta accorgendo che ovunque ha investito sui migranti – non ha accolto ha investito – ha ottenuto futuro. Come dice papa Francesco, investire sui migranti (accogliere, integrare) alla fine la speranza di futuro non la dai solo a loro, la dai alla tua terra. È inutile che mandiamo i migranti in Albania o confinarli in Tunisia come si vuol fare con questi accordi bilaterali. Siamo noi che abbiamo bisogno di loro, anche per raccogliere i “pomi” in val di Non. L’accoglienza che pare faticosa poi, in realtà, si dimostra vincente».
È scritto anche nel Vangelo, no?
«Certo: chi ama la propria vita e la stringe la ritrova muffita. Chi apre la mano e semina vita diventa capace di dare e portare speranza».
Da molto tempo ormai nel cuore dell’Europa e nel vicino Oriente è Venerdì santo. Ci sarà una Pasqua di resurrezione?
«Se si ascolta finalmente il Papa, il suo messaggio della “bandiera bianca” e della trattativa, ci potrà essere un’alba di resurrezione. Se non si capisce che l’altro va comunque ascoltato, non importa se è stato il primo a cominciare, a invadere la terra altrui; se non si avvia una strada di pacificazione andremo incontro a un suicidio collettivo».
Il Papa ha detto: bisogna trattare.
«Ma papa Francesco ha detto pure: mettiamoci insieme e lavoriamo insieme per una strada di futuro. Incontriamoci».
Non solo l’Ucraina e la Russia; c’è anche Gaza.
«Se non si capisce che i muri e le barriere non garantiranno mai la sicurezza di un popolo ma solo il dialogo potrà portare alla pacificazione non vi sarà futuro per alcuno».