La testimonianza
domenica 31 Marzo, 2024
di Davide Orsato
«Viviamo in un tempo spietato, basta una tastiera per emettere sentenze». Il fatto che, persino in un momento sacro e austero come il Venerdì santo, papa Francesco abbia voluto ricordare il male che si può fare semplicemente scrivendo qualche riga online, fa capire come l’odio social sia diventato un problema etico anche per una religione con duemila anni di storia. In quelle sentenze, Emy Albertini, ci è inciampata per la prima volta una decina di anni fa. Un’altra era internettiana, altri social. Ma che già sapevano essere crudeli. Sono seguiti cinque anni di vessazioni, online e offline, in cui, da giovane studentessa, ha visto l’abisso. Poi, inaspettata, la rinascita. Emy ora ha 24 anni, vive a Trento e sta per completare il suo percorso scolastico a Rovereto.
La sua è una storia di bullismo, una storia finita bene. Come è iniziato il tutto?
«La mia famiglia mi ha iscritto a un istituto paritario di un’altra città. Non una scuola “in”, ma con delle dinamiche particolari. E forse ha pesato la mia provenienza – sono di origine straniera, benché italiana – e il mio aspetto fisico: la magrezza e un leggero strabismo. Ma tutto è nato in un social popolare all’epoca: Ask».
Un sito che consentiva di fare domande anonime…
«Sì, all’epoca ero l’unica a non avere un telefonino, a non avere l’accesso a internet… i miei erano molto protettivi. Ma è bastato che si spargesse la voce che avevo fatto una domanda “sgradita” a una ragazza, la più popolare, come si suol dire, perché finissi presa di mira».
Che è successo?
«Lei è sbottata, ha fatto una scenata, mi ha detto che non dovevo permettermi… poi si sono scatenate le sue amiche. Qualche giorno dopo sono stata spinta giù dalle scale. Durante la lezione di educazione fisica mi hanno chiusa in bagno… ancora oggi non ricordo cos’è successo se non che sono riuscita a uscire solo molto tempo dopo… ma è stato l’inizio. Naturalmente tutto questo aveva un seguito anche sul social in questione e poi sugli altri, dove su di me venivano scritte le peggio cose. Ed è questa la cosa peggiore del cyberbullismo: gli atteggiamenti intimidatori non finiscono a scuola, ti seguono a casa».
Come reagiva?
«Non ne avevo le forze. Sono entrata in depressione. Solo quando se la prendevano anche con la mia sorella gemella, che era nella stessa scuola, riuscivo a dire qualcosa. A un certo punto ho smesso di mangiare, dimagrivo sempre di più. E i pensieri di farla finita sono diventati ossessivi».
Qualcuno la aiutava?
«I miei genitori sono sempre stati dalla mia parte. I miei insegnanti, invece, si sono rivelati impreparati sul fenomeno. Alcuni facevano battutine che generavano, magari a loro insaputa, tormentoni infiniti. Ma c’è stata un’amica che mi supportato e il preside, che mi ha consigliato di parlarne a una psicologa: la terapia mi ha aiutato a uscirne».
Qual è stata la cosa più difficile?
«Tornare a credere in me stessa. Ero ossessionata dal pensiero non essere capace a far niente, anche quando qualche risultato arrivava».
E dopo la scuola?
«Sono riuscita, grazie anche al supporto dei miei genitori a prendere il diploma. La maturità è stata forse la nota migliore di cinque anni che ho rimosso, di cui mi ricordo pochissimo, se non che non volevo alzarmi alla mattina. Poi, incoraggiata anche da mia sorella, che andava bene all’università, mi sono decisa a fare quello che mi piace. Così ho preso il diploma di estetista che mi ha permesso, ora, di frequentare il corso di tecnico superiore per la gestione di centri benessere. Cambiare ambiente è stata la chiave».
Ha un consiglio per chi si dovesse trovare in una situazione simile alla sua?
«Sarò brutale: non farla finita. Perché è questa la scorciatoia che viene in mente nel momento peggiore. Le cose possono cambiare. E c’è una strada, una dimensione per tutti. Io ho scoperto che la mia è quella di far sentire bene la gente con il mio lavoro. E questo fa sentire bene anche me».