l'intervista

sabato 11 Maggio, 2024

Titia de Lange, premio Pezcoller per la ricerca sul cancro : «Quando mi laureai ero l’unica donna»

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Oggi al Teatro Sociale la cerimonia ufficiale. «Per sconfiggere i tumori la ricerca deve essere libera. Solo così continua il progresso»

Titia de Lange non è una scienziata comune, quel desiderio di scoperta che ha sempre accompagnato la sua vita colpisce subito chi la incontra. Appena arrivata a Trento ha già programmato i giorni successivi alla premiazione come vincitrice 2024 del premio Pezcoller per la ricerca sul cancro che le verrà consegnato ufficialmente oggi al Teatro Sociale. «Dopo ho prenotato un albergo tra le montagne – ci racconta seduti al tavoloni di un bar – Non vedo l’ora di fare qualche trekking e andare in esplorazione». Questo desiderio di ricerca, di scoprire cosa si nasconde dietro a ciò che si può osservare, è il segno distintivo del suo lavoro scientifico. Ciò che l’ha portata a scoprire il funzionamento dei telomeri e poi a vincere il premio Pezcoller. I telomeri sono la regione terminale di un cromosoma composta di Dna altamente ripetuto che protegge l’estremità del cromosoma stesso dal deterioramento o dalla fusione con cromosomi confinanti. Informazioni e meccanismi ora conosciuti, proprio grazie al lavoro di de Lange.
Dottoressa de Lange che emozione è stata vincere il premio Pezcoller?
«Quando ho ricevuto la notizia ne sono stata molto felice, è un grandissimo riconoscimento. Specialmente perché sono stata premiata per il mio lavoro di ricerca sul cancro e questo significa moltissimo per me».
Ci può spiegare, in termini semplici, in cosa consiste il lavoro per cui è stata premiata?
«Io ho lavorato a questi piccoli elementi che si trovano alle estremità dei cromosomi che si chiamano telomeri. Molte persone, anche senza essere scienziati, conoscono i telomeri perché sanno che si accorciano quando invecchiamo. Quindi c’era molto interesse per conoscere cosa fossero e come funzionassero. E la loro funzione principale è proteggere le estremità del cromosoma. Abbiamo compreso che senza i telomeri moriremmo. Perché senza di essi la cellula penserebbe che l’estremità del cromosoma è Dna danneggiato e si autodistruggerebbe. Quindi i nostri telomeri si accorciano con il passare del tempo e per questo a lungo si è pensato che l’invecchiamento fosse legato all’accorciarsi dei telomeri. Ma la verità è che si accorciano per proteggerci dal cancro, è una buona cosa che si accorcino. Perché quando si sviluppa un tumore nel nostro organismo i telomeri si accorciano e quindi ad un certo punto tutte le cellule cancerogene vengono eliminate e questa è una cosa positiva e importante».
Che applicazioni mediche sono legate a questa scoperta?
«Abbiamo studiato e identificato delle famiglie che hanno un problema con i loro telomeri. Sono intatti ma troppo lunghi. In queste famiglie abbiamo osservato che la frequenza e la possibilità di sviluppare un tumore era molto più alta della media. Questo perché i loro telomeri sono così lunghi che quando un cancro si sviluppa i telomeri iniziano ad accorciarsi, ma sono così lunghi da non permettere di uccidere il tumore».
Quale pensa che sarà la prossima grande svolta medica nella lotta al cancro?
«Premetto che non sono un medico, guardo al tema da scienziata. Al momento la grande svolta sono stati i vari tipi di immunoterapia. Immagini che questo continuerà a espandersi, diventando più efficiente, applicabile a diversi tipi di tumore. L’auspicio è che tra 10 anni ci sarà una nuova scoperta altrettanto rivoluzionaria che spalancherà le porte ad una nuova strada di cure e trattamenti. La cosa importante da capire, sulla ricerca per il cancro, è che è impossibile sapere a priori da dove arriverà la svolta. È possibile che in questo momento uno scienziato o una scienziata stiano facendo un esperimento in un laboratorio su una mosca o su un lievito che ci porterà a una scoperta che potrà dare un contributo alla lotta al cancro tra 10 anni. Non lo possiamo predire è questo il bello della scienza, non si può dire “dobbiamo andare qui per progredire”. Dobbiamo tenere una mente aperta».
Quindi secondo lei la ricerca deve essere libera e non applicata?
«C’è uno spazio per la ricerca applicata, ma se non si supporta la ricerca libera e di base, come ho iniziato io, non troveremo nuove idee, nuovi punti di vista su vecchi problemi. L’immunoterapia per esempio è nata dalla ricerca di base fatta dagli immunologi interessati a capire come funzionassero le “T-cell” e una volta capito quello si è trovata l’applicazione clinica».
Quanto è rimasto da scoprire sul funzionamento delle nostre cellule?
«È un lavoro che non finisce mai. Se mi avesse fatto questa domanda 20 anni fa le avrei risposto allo stesso modo, e negli ultimi due decenni abbiamo fatto passi da gigante, ma c’è ancora moltissimo da scoprire. È questo il bello della ricerca»
Lei è la quarta donna a vincere questo premio. Non sono molte, cosa ci dice della parità di genere nel mondo della ricerca?
«Io ho 68 anni, nella mia generazione di ricercatori e ricercatrici noi donne eravamo poche. I premi arrivano alla fine delle nostre carriere, quindi quello che un premio come questo ci mostra è che c’erano poche donne che facevano ricerca ai miei tempi. Le cose sono migliorate, sempre più donne vinceranno questo e altri premi. Oggi (ieri per chi legge, ndr) ho fatto una lezione a Padova e la stragrande maggioranza delle persone in aula erano donne, quasi il 75%. Questo si rifletterà anche nella ricerca. E sono molto felice di vedere questa maggiore parità di genere nel mondo della scienza».
Il suo lavoro l’ha portata presto negli Stati Uniti, come mai?
«Beh è molto semplice, ho fatto il mio dottorato in Olanda negli anni ‘80. Quando discussi la mia tesi ero la seconda donna su 44 studenti. In Olanda non c’erano né professoresse, né ricercatrici donne in campo scientifico. E anche tra gli studenti eravamo per l’appunto solo 2 su 44. Nel 1985 andai a San Francisco per un periodo postdoc e con mia grande scoperta trovai donne che erano professoresse universitarie, che dirigevano laboratori, che venivano prese sul serio. Inoltre negli Stati Uniti per un giovane ricercatore era più facile ai tempi avere un proprio laboratorio e seguire le proprie ricerche. A quel punto era difficile per me immaginare di tornare in Olanda. Ho iniziato quindi a fare domanda per molti posti: Mit, Harvard e nessuno mi rispose. Per fortuna il Rockefeller Center di New York mi offrì un lavoro. Tutti mi dicevano: “Lì non sarai mai promossa, non diventerai mai di ruolo”. Ma ho deciso di provarci lo stesso, se fosse andata male avrei comunque vissuto per 6 anni a Manhattan».
Alla fine però è diventata di ruolo.
«Alla fine sì, nonostante le previsioni negative e i risultati sono stati importanti. Quindi alla fine direi che libertà di ricerca e parità di genere sono elementi fondamentali per il progresso».